Luca Gandolfi

Dottore in Scienze Politiche

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Capitolo 9
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IL MODELLO DI DEMOCRAZIA DIRETTA:

L'ECONOMIA

 

A più riprese è stato detto che il nostro intento è quello di costruire un modello di democrazia diretta che sia il più possibile completo, cioè che tenga conto non solo dell'aspetto meramente istituzionale, procedurale e di organizzazione dello Stato, ma anche di tutti quegli elementi o settori che compongono le società complesse moderne, cercando di analizzare i cambiamenti da apportare al loro interno al fine di adattarli e armonizzarli al modello proposto.

Proprio con lo scopo di soddisfare questa esigenza, punteremo la nostra attenzione sull'economia, sviluppando la nostra idea di una nuova economia, esplicitandone le caratteristiche principali, dopo aver condotto una breve presentazione di alcuni aspetti dell'economia mondiale attuale.

 

9.1 - La nuova economia

Il nostro intento è quello di adeguare l'economia al modello di democrazia diretta che è stato presentato. In particolare, la nuova economia dovrà chiarire se sia necessario, o almeno utile, introdurre la democrazia anche all'interno del mondo del lavoro; quali forme organizzative dovrebbero prevalere; come strutturare i tempi di lavoro conciliandoli con quelli da dedicare alla vita privata e alla politica partecipativa; quale debba essere la morale da applicare all'economia; e, infine, quale politica economica si adatterebbe meglio al nostro modello.

Prima però di addentrarci nel vivo della trattazione dell'argomento della nuova economia, occorre chiarire brevemente alcune questioni che riguardano l'economia odierna: quali sono gli aspetti principali che la caratterizzano; cosa la differenzia dal passato; come si è sviluppata; quali sono state le conseguenze di questo sviluppo; quali sono i problemi che emergono a livello mondiale; quali differenze ci sono tra i livelli di sviluppo delle economie dei vari paesi; quale ruolo svolgono le multinazionali; e altre ancora che analizzeremo prima di esplicitare i vari punti nei quali si sviluppa quella che abbiamo battezzato come "la nuova economia".

Cos'è, dunque, che differenzia l'economia del mondo moderno da quella del passato? Le moderne società industrializzate sono subentrate a quelle tradizionali basate sull'agricoltura. Nelle società moderne e industrializzate si é assistito a una progressiva suddivisione del lavoro, a una sua razionalizzazione, e a una sempre maggiore specializzazione.

Ormai nelle società industriali solo una minima parte della popolazione é dedita all'agricoltura, anche se, grazie alle moderne tecnologie applicate in questo settore e a nuovi fertilizzanti chimici, la produzione che ne deriva supera il fabbisogno interno delle nazioni, le quali hanno spesso il problema di sostenere i prezzi dei prodotti agricoli con costi enormi per la comunità.

Un fenomeno opposto si verifica nei cosiddetti paesi del Terzo mondo. In molti di essi, nonostante quasi tutta la popolazione sia dedita all'agricoltura, la produzione di generi alimentari non riesce a soddisfare il fabbisogno nazionale. Questo accade per almeno due ordini di motivi: il primo, è che in molti casi vengono usati ancora metodi di coltivazione artigianali; la seconda ragione é che spesso i contadini lavorano per conto di grosse imprese transnazionali del settore che esportano gran parte dei prodotti verso mercati più redditizi come quelli occidentali, privandone così i paesi in cui questi vengono prodotti. Tutto ciò é poi aggravato da un forte incremento demografico, che aumenta a dismisura il bisogno di generi alimentari dei paesi del Terzo mondo.

Lo sviluppo del settore industriale dei paesi del cosiddetto Primo mondo, é avvenuto anche grazie a delle circostanze storiche, spesso provocate proprio da esigenze economiche, come é stato il caso del colonialismo, che ha permesso ai paesi Occidentali dominatori, di appropriarsi delle materie prime dei paesi occupati, impoverendo le economie locali e arricchendo le proprie. Questa situazione di dipendenza, di sfruttamento delle risorse materiali e umane, e di differenza di sviluppo economico, si é protratta anche dopo la fine del colonialismo, concluso solo dal punto di vista formale: persiste tutt'oggi, infatti, una stretta dipendenza economica dei paesi del Terzo mondo rispetto a quelli industrializzati. Esistono diverse teorie sulle origini delle disuguaglianze di ricchezza nel mondo, tutte però concordano sull'importanza che ha avuto in questo processo il colonialismo.

L'attuale organizzazione economica mondiale é strutturata in modo tale da poter solo accentuare queste differenze di ricchezza fra i paesi del Primo e quelli del Terzo mondo; molti di questi ultimi sono infatti fortemente indebitati con i primi, e hanno notevoli difficoltà già solo per riuscire a pagare gli interessi di questi debiti, non potendo così impiegare i loro sforzi per trovare le risorse economiche necessarie allo sviluppo delle loro economie. Come se non bastasse, la loro situazione é aggravata - come già accennato in precedenza - da un forte incremento demografico che è all'origine di un aumento sia del numero dei disoccupati, che degli affamati.

La situazione attuale dell'economia a livello mondiale evidenzia, insomma, il protrarsi e l'accentuarsi dei divari tra i paesi ricchi e quelli più poveri, un divario che ha conseguenze non solo economiche, ma anche politiche, sociali e culturali.

Il problema del divario dello sviluppo economico tra il nord e il sud del mondo, che secondo alcuni tende ad aumentare nel corso del tempo, non è certamente l'unico che attanaglia l'economia a livello mondiale. L'enorme sviluppo demografico che si realizza all'interno dei paesi meno sviluppati economicamente, non provoca solamente un problema di carenze nella produzione alimentare e problemi ulteriori per lo sviluppo economico, ma anche una sovrabbondanza di mano d'opera e quindi una disoccupazione crescente. Tutto ciò induce gli abitanti di queste zone della terra a tentare la fortuna emigrando, quasi sempre clandestinamente, verso i paesi più sviluppati. Le responsabilità che questi ultimi hanno nei confronti dei paesi in via di sviluppo e di quelli sottosviluppati per la loro arretratezza economica, non impedisce loro di attuare, sebbene con modi e in misure differenti, una chiusura delle frontiere nei loro confronti. E' pur vero che anche le economie dei paesi più sviluppati non godono di ottima salute, ma è certo che se vengono poste a confronto con i dati delle economie dei paesi del resto del mondo possono addirittura sembrare idilliaci.

La soluzione dei problemi delle economie nazionali, è bene rendersene conto, non può ormai più essere trovata esclusivamente all'interno del singolo paese. Troppe sono le relazioni economiche che legano i diversi paesi e le loro economie. A livello di organizzazione mondiale, si sta realizzando una sempre maggiore globalizzazione, cioè una crescente interdipendenza economica, politica e sociale.

Molte imprese sono ormai transnazionali, hanno cioè interessi economici e filiali in molte parti del mondo; la loro potenza economica é enorme e si diversifica in diversi settori dell'industria e della finanza, spesso il loro fatturato supera il PNL di molte nazioni, e questo permette loro di avere il potere necessario per condizionare le politiche di molti governi nazionali. A volte, alcune di esse, formano degli oligopoli che consentono loro di gestire quel particolare settore come più gli conviene. La maggior parte di queste imprese transnazionali sono di origine USA; esse concentrano nelle loro mani l'intera gestione dell'economia mondiale.

La suddivisione del lavoro a livello internazionale, grazie al ruolo mondiale delle imprese transnazionali e dalle multinazionali, é caratterizzata dall'inter-dipendenza economica. A livello mondiale sono in atto processi di riorganizzazione spaziale del lavoro, il settore manifatturiero é in forte sviluppo nei paesi non-Occidentali, mentre in quelli Occidentali é in declino. Questo a causa di un problema di costi della manodopera, che nei paesi Occidentali risulta essere molto cara, mentre in molti paesi in via di sviluppo é a buon mercato, e ciò induce le imprese transnazionali a spostare i loro stabilimenti nelle zone in cui la manodopera è meno costosa. Anche in questo caso la soluzione del problema non può essere trovata all'interno di una singola nazione, poichè ciò indurrebbe soltanto le imprese transnazionali a un ulteriore spostamento dei loro stabilimenti. E' necessario cercare di uniformare il sistema dei diritti dei lavoratori a livello mondiale per evitare questo genere di inconvenienti.

Tutto questo intrecciarsi delle economie a livello mondiale, la globalizzazione, e lo strapotere delle multinazionali, impone, per chi voglia porre le basi per una nuova economia, di tenere sempre ben presente questo sistema di cose. E' impossibile pensare a una nuova concezione e organizzazione dell'economia, sviluppando questa idea e applicandola ad un solo paese. E' chiaro che qualsiasi riforma, sia di tipo strutturale che culturale, deve estendersi oltre i confini di una singola nazione, altrimenti è destinata a morire in breve tempo, schiacciata dallo strapotere delle economie più forti, siano esse quelle dei governi o delle multinazionali. E' necessario, quindi, tenere sempre presente che qualsiasi proposta venga fatta all'interno del nostro modello di una nuova economia - che si adatti e si integri perfettamente col nostro modello di democrazia diretta - dovrà venire applicata ad almeno una federazione di stati in grado di costituire un sistema economico relativamente indipendente e forte rispetto al resto del mondo. Il rischio, altrimenti, sarebbe enorme: un sistema economico parzialmente alternativo non in grado di sopravvivere porterebbe al fallimento anche del modello politico di democrazia diretta. E' già accaduto più volte nel corso della storia che si sia ritenuto fallito un sistema politico e ideologico solo perchè la sua economia non è stata sufficientemente forte da resistere alle pressioni esercitate dai sistemi economici alternativi che la circondavano. Nel nostro caso è necessario che "la storia non si ripeta". Bisogna perciò stare molto attenti a fare in modo che la rivoluzione culturale, morale e strutturale dell'economia avvenga all'interno di un contesto il più possibile "globale", che coinvolga, cioè, un numero abbastanza esteso di economie nazionali sane.

Rimane ora da chiarire quale sia il contenuto di questa nuova economia: se essa preveda l'introduzione o meno della democrazia nel mondo del lavoro; quale forma organizzativa della proprietà aziendale sarebbe preferibile; come andrebbe ristrutturata l'organizzazione del lavoro, quali criteri e quali esigenze dovrebbe soddisfare; quale dovrebbe essere la nuova morale economica dominante; e, infine, quale politica economica sarebbe preferibile applicare.

9.1.1 - Democrazia nel mondo del lavoro?

La democratizzazione del mondo del lavoro è una questione che è stata già ampiamente dibattuta, nel corso degli anni, all'interno del mondo accademico. Lo stesso Marx suggerì che la democrazia politica avrebbe dovuto essere affiancata e, in questo modo, completata dall'introduzione di alcuni diritti democratici nella sfera della produzione industriale. Piuttosto che di democrazia, sarebbe più opportuno parlare di possibilità di partecipazione alle decisioni nel mondo del lavoro. La distinzione è doverosa, e viene fatta anche dalla Pateman in "Participation and democratic theory", il testo nel quale questa studiosa analizza la possibilità e la necessità di introdurre qualche forma di partecipazione anche nel mondo industriale, con l'intento di abituare ed educare i cittadini alla partecipazione stessa.

Il termine "democrazia" - spiega la Pateman -, pur essendo usato spesso in modo intercambiabile con quello di "partecipazione", si riferisce a un clima generale e non a una particolare struttura di autorità, pertanto esso può venire utilizzato anche per descrivere una situazione di pseudo-partecipazione (o partecipazione apparente), o addirittura semplicemente l'esistenza di un'atmosfera amichevole all'interno dell'azienda.

Quello che invece vogliamo porre in discussione e analizzare in questa sede, è se sia opportuno introdurre anche nel mondo del lavoro una qualche forma di partecipazione da parte dei lavoratori nelle decisioni che l'azienda deve compiere, in modo tale da modificare, totalmente o solo in parte, le strutture di autorità e decisionali interne all'azienda stessa.

Occorre, prima di iniziare a ragionare sull'argomento, fare una ulteriore precisazione, esistono almeno due differenti livelli dirigenziali: il livello basso (lower level of management), che si riferisce principalmente a quelle decisioni dirigenziali riguardanti il controllo e la gestione delle attività quotidiane; e il livello alto (higher level of management), concernente quelle decisioni dirigenziali che sono poste in relazione con lo sviluppo dell'intera impresa, sugli investimenti da compiere e sul marketing in generale. Per entrambi questi livelli è possibile ipotizzare una maggiore partecipazione dei lavoratori.

Tuttavia, anche il concetto di partecipazione necessita di ulteriori precisazioni, poiché è possibile che essa assuma diverse forme. La partecipazione è parziale, quando, nonostante venga consentito ai lavoratori di intervenire nella discussione o di far conoscere la loro opinione, la prerogativa della decisione finale spetta solo e unicamente alla discrezione dei dirigenti dell'azienda, lasciando così intatta la struttura gerarchica decisionale classica. La partecipazione parziale, come spiega la Pateman nel suo testo, utilizzando le parole di Jaques:

"[...] is based on the clear distinction between managerial authority to make decisions and give instructions, and employee participation in formulating the policy framework within which managers are sanctioned and freed to make those decisions."

La partecipazione è piena, invece, quando sussiste una uguale possibilità di tutti i lavoratori di prendere parte al processo decisionale interno all'azienda, determinandone l'esito finale. Si tratta, in questo caso, di una reale possibilità per i lavoratori di partecipare alle decisioni aziendali, avendo lo stesso potere decisionale dei dirigenti e provocando, in questo modo, una profonda modificazione della struttura gerarchica-decisionale esistente. Sia la partecipazione parziale, che quella piena, sono possibili ad entrambi i livelli decisionali presentati in precedenza.

Sono stati condotti, nel recente passato, numerosi esperimenti di partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese, grazie ai quali si sono potuti verificare gli effetti dei vari tipi di partecipazione ai diversi livelli decisionali. La Pateman esprime il suo giudizio complessivo a tale riguardo:

"In the industrial participation experiments an increase in worker participation has inevitably been found to have beneficial rasults."

L'evidenza empirica sulla partecipazione nel mondo dell'industria, ha mostrato che anche una partecipazione solo parziale al livello decisionale basso è sufficiente per determinare una maggiore soddisfazione tra i lavoratori, aumentando così anche il loro rendimento sul lavoro; una partecipazione parziale al livello dirigenziale alto - secondo la Pateman - può essere utile per i fini educativi rispetto alla partecipazione stessa, oltre a conservare una perfetta compatibilità con l'efficienza economica. In ogni caso, gli esperimenti di partecipazione nel mondo dell'industria, benché in alcuni casi considerati poco rappresentativi perchè condotti per brevi periodi, in piccole aziende e con la consapevolezza dei lavoratori di essere sotto osservazione, hanno avuto dei risultati estremamente positivi: sia per ciò che concerne l'introduzione di migliori condizioni di lavoro e di attenzione ai problemi della sicurezza per i lavoratori; sia per quello che riguarda la salute mentale e psicogica dei lavoratori; mostrando, inoltre buoni livelli di produttività. Così si esprime Blumberg dopo aver analizzato diciasette esperienze di democrazia industriale:

"Nell'intera letteratura sull'argomento, praticamente tutti gli studi dimostrano che un effettivo incremento del potere decisionale dei lavoratori accresce la soddisfazione nell'ambiente di lavoro o provoca altre positive conseguenze universalmente riconosciute. Direi che una tale uniformità di risultati è rara nella ricerca sociale."

Il risultato che però sta più a cuore alla Pateman, è sicuramente quello in riferimento al senso di efficacia politica e di competenza politica che emerge sempre più rafforzato in coloro che hanno avuto esperienze di partecipazione in sfere di attività non-politiche, in particolar modo nel mondo dell'industria. E' uno degli effetti psicologici positivi della partecipazione che sono più cari ai teorici della società partecipativa; questo perchè, come spiega la Pateman utilizzando le parole di Campbell:

"People who have a sense of political efficacy are more likely to partecipate in politics than those in whom this feeling is lacking and it has also been found that underlying the sense of political efficacy is a sense of general, personal effectiveness, which involves self-confidence in one's dealings with the world. Persons who feel more effective in their everyday tasks and challenges are more likely to partecipate politics [...]"

A sostegno dell'opinione di Campbell interviene uno studio condotto da Almond e Verba, nel quale i due accademici osservano il comportamento e le attitudini politiche degli individui in cinque diversi paesi - USA, Gran Bretagna, Germania, Italia e Messico - puntando la loro attenzione soprattutto sul senso di competenza politica e sul suo sviluppo. Gli autori constatano che in tutti e cinque i paesi esiste una relazione positiva tra il senso di efficacia politica e la partecipazione politica, sebbene il senso di competenza fosse più alto a livello locale che nazionale. Così si esprimono i due autori:

"[...] political participation on the local level plays a major role in the development of a competent citizenry."

I due studiosi, inoltre, hanno indagato sugli effetti della partecipazione nelle organizzazioni di volontariato; anche in questo caso, in tutti e cinque i paesi, il senso di efficacia politica risultava essere più alto tra i membri di queste organizzazioni rispetto a chi non ne faceva parte. Le analisi condotte da Almond e Verba, al pari di molti altri studi recenti sulla socializzazione politica, hanno mostrato la validità delle affermazioni fatte dalla Pateman e dagli altri teorici della partecipazione democratica sul fatto che gli individui sarebbero condizionati dalle esperienze che compiono all'interno delle strutture di autorità non-governative per costruire il loro senso di efficacia politica e le loro attitudini alla partecipazione. Sebbene alcuni studiosi - Easton - focalizzino la loro attenzione sulle esperienze individuali della prima infanzia, l'evidenza empirica mostra che sono le esperienze vissute da adulti a risultare determinanti per lo sviluppo del senso di efficacia politica. Almond e Verba ribadiscono, a conclusione del loro studio, che:

"Of crucial significance for the development of the sense of political efficacy are opportunities to partecipate in decisions at one's place of work. The structure of authority at workplace is probably the most significant - and salient - structure of that kind with which the average man finds himself in daily contact."

Sono queste le motivazioni che spingono la Pateman a ritenere utile inserire una nuova struttura di autorità nel mondo dell'industria, che consenta maggiori opportunità di partecipazione da parte dei lavoratori alle decisioni che riguardano l'azienda. Così si esprime la Pateman:

"[...] participation in non-governmental authority structures is necessary to foster and develop the psycological qualities (the sense of political efficacy) required for participation at the national level. Evidence has also been cited to support the argument that industry is the most important sphere for this participation to take place [...]"

Altri studi - condotti da Blauner e da Argyris - hanno condotto ai medesimi risultati, pur compiendo in senso inverso le analisi. Essi hanno mostrato che nel caso le strutture organizzative e decisionali interne all'industria impedissero la partecipazione, o addirittura determinassero dei metodi di lavoro improntati su operazioni semplici ed elementari da ripetere in continuazione e da inserire in una catena produttiva nella quale il lavoratore è privo di qualsiasi responsabilità creativa, il lavoratore, oltre a provare un forte senso di alienazione, avrebbe avuto una condizione psicologica tale da perdere fiducia in se stesso e nel senso di una sua eventuale partecipazione attiva alla politica.

Questi risultati sembrano rafforzare ulteriormente la posizione della Pateman, poichè essi mettono in rilievo non solo che una maggiore partecipazione alle decisioni nel mondo dell'industria darebbe agli individui un maggiore senso di efficacia politica, stimolandoli nella direzione di una vita politica attiva e fondata sulla partecipazione - che è una condizione essenziale per l'attuazione della democrazia diretta -; ma anche che un mondo del lavoro organizzato in modo tale da alienare il lavoratore avrebbe un effetto frenante nei confronti della partecipazione politica.

Da quanto detto fino ad ora emerge chiaramente che il tipo di struttura di autorità presente sul luogo di lavoro ha una certa importanza per determinare il successo o il fallimento di un sistema politico fondato sulla partecipazione dei cittadini, come dovrebbe accadere in un modello basato sulla democrazia diretta. Ma affermare questo non vuole assolutamente dire appoggiare, ritenere opportuna, o addirittura desiderabile l'introduzione della piena partecipazione in entrambi i livelli decisionali.

Pur ritenendo troppo rigida e assoluta l'affermazione di Eckstein, per il quale:

"[...] non è possibile democratizzare le strutture di autorità dell'industria."

è pur vero che numerosi problemi potrebbero sorgere nel momento in cui si tentasse di inserire una partecipazione piena ad entrambi i livelli decisionali, non tenendo, in questo modo, conto delle diverse condizioni e dello sviluppo del contesto economico nel quale è sempre più necessario che le decisioni, soprattutto quelle ad alto livello, vengano prese da un personale dirigente adeguatamente preparato e in grado di considerare in tempi brevi tutte le conseguenze che comporta la decisione in questione. Non si spiegherebbe, altrimenti, il fatto che, mentre all'inizio dell'industrializzazione erano gli stessi imprenditori a ricoprire il ruolo di managers, gestendo in prima persona l'azienda; con lo sviluppo dell'economia mondiale e con la maggiore complessità delle decisioni che si sono venute a determinare, questi due ruoli si sono separati: la gestione e direzione delle imprese è passata a un personale manageriale altamente specializzato, nettamente distinto dal ruolo di imprenditore (almeno per le medie e grandi imprese). Anche la proprietà ha subito alcune mutazioni, dando vita a società per azioni in cui conta chi ha il pacchetto di maggioranza (anche solo relativa), portando alla progressiva scomparsa della figura del singolo "capitalista" proprietario della sua azienda. Nella piccola industria, invece, i due ruoli sono spesso ancora uniti, anche se il manager di professione si sta diffondendo anche in questo contesto.

Nel nostro modello di democrazia diretta, quindi, non è prevista una forma di partecipazione piena nel mondo dell'industria per entrambi i livelli decisionali, almeno fino a quando non si saranno modificate in modo radicale le condizioni all'interno del mondo economico e, allo stesso tempo, il livello di competenza dei lavoratori per ciò che riguarda la politica dell'azienda ad alto livello. E' chiaro, comunque, che il "no" non è rivolto alla partecipazione piena per una scelta di valori, perchè, anzi, da questo punto di vista essa ben si adatterebbe al modello di democrazia diretta; il problema, lo ribadiamo, è più da un punto di vista pratico, per ciò che comporterebbe la sua attuazione. Non è un no assoluto alla partecipazione piena, ma un "no, per ora", lasciando aperta la possibilità in futuro che essa possa entrare a far parte integrante del modello. La partecipazione piena al livello decisionale basso e parziale a quello alto nel mondo dell'industria sarebbe possibile solo nel momento in cui il modello politico-istituzionale di democrazia diretta si fosse stabilizzato e la cultura dominante si fosse pienamente adeguata ai valori della democrazia diretta; ma non basta, sarebbe anche necessario che la federazione degli stati in cui si è decisa l'applicazione della democrazia diretta fosse giunta a un livello di completa autonomia economica dal resto del mondo e costituisse, in questo modo, un sistema a sé stante, al cui interno si potrebbe sviluppare un'economia completamente alternativa a quella attuale. La partecipazione piena nel mondo dell'industria farebbe quindi parte di una fase finale della democrazia diretta, una fase totale che potrebbe anche non venire mai.

Non sarebbe più saggio, allora, lasciare le cose come stanno? Forse si. O quanto meno, cercare di modificare solo leggermente le cose inserendo una partecipazione parziale al livello decisionale basso, in modo tale da ottenere comunque una maggiore soddisfazione da parte dei lavoratori e da migliorare il loro senso di efficacia politica. A questo proposito occorre precisare che il nostro modello di democrazia diretta non intende utilizzare la partecipazione nel mondo dell'industria come strumento per "educare" i cittadini-lavoratori a una vita maggiormente partecipativa, abituandoli in una sfera non propriamente politica a delle forme di democrazia diretta, o comunque di partecipazione, come invece voleva fare la Pateman. Nel nostro caso, l'inserimento della partecipazione nel mondo del lavoro è solo un modo per dare maggiore coerenza al sistema nel suo complesso e per evitare il sorgere di nuove tensioni che si potrebbero verificare nel momento in cui il cittadino si è abituato a vivere la politica in modo attivo e partecipativo, accrescendo il suo senso di efficacia politica e vedendosi frustrato nel momento in cui questo non potesse realizzarsi, almeno in parte, anche sul luogo di lavoro.

In ogni caso, le decisioni di alto livello rimarrebbero di esclusiva competenza dei managers di professione e di coloro che hanno la proprietà dell'azienda, in considerazione rispettivamente della loro competenza, per i primi, e del rischio economico, per i secondi.

La partecipazione sarebbe, invece, piena per tutto ciò che concerne le decisioni sulla sicurezza e sulle condizioni di lavoro, aspetti che hanno dimostrato essere affrontati con la dovuta attenzione solo se intervengono i diretti interessati, cioè i lavoratori. Occorre comunque ricordare che su questo punto un ruolo assai importante spetta anche ai sindacati, soprattutto dopo le riforme che abbiamo suggerito in precedenza (vedi Cap. 7). Certamente l'aggiunta di qualche meccanismo partecipativo pieno interno all'azienda, su questi argomenti, non potrebbe che migliorare la situazione. La tabella 9.1 riassume schematicamente i punti fondamentali dell'introduzione della partecipazione-democrazia nel mondo del lavoro.

 

Tab. 9.1 La democratizzazione-partecipazione nel mondo dell'industria, nel modello completo di democrazia diretta.

a- NO alla partecipazione piena a entrambi i livelli decisionali

b- SI alla partecipazione parziale al livello decisionale basso;

c- SI alla partecipazione piena per decisioni riguardanti la sicurezza e le condizioni di lavoro, anche attraverso il ruolo dei nuovi sindacati;

d- NO alla partecipazione piena al livello decisionale alto: le decisioni di questo tipo spettano solo ai managers professionali e a coloro che hanno la proprietà dell'azienda

e- SI alla partecipazione parziale al livello decisionale alto e a quella piena al livello basso, ma solo in una fase finale del modello di democrazia diretta, quando si saranno verificate alcune condizioni necessarie e sufficienti:

1- il modello politico-istituzionale di democrazia diretta si è stabilizzato;

2- la cultura dominante si è pienamente adeguata ai valori della democrazia diretta;

3- la federazione degli stati in cui si è decisa l'applicazione della democrazia diretta è giunta a un livello di completa autonomia economica dal resto del mondo.

 

Quando parliamo di partecipazione all'interno dell'industria non pensiamo, però, ad alcuna forma di anarchia, ma a forme organizzative che vanno dai gruppi di lavoro auto-regolanti a delle forme di referendum interni all'azienda che consentano ai lavoratori di esprimere la loro opinione e di farla valere in sede decisionale. Quest'ultima soluzione sembra essere la più coerente con il sistema politico-istituzionale che attiene al modello di democrazia diretta, anche se potrebbe comportare delle difficoltà nella sua applicazione pratica in un ambito come quello del mondo del lavoro. Nel caso di piena partecipazione il risultato del referendum avrebbe valore decisionale; nel caso, invece, di partecipazione parziale o di pseudo-partecipazione esso avrebbe solo un valore conoscitivo delle opinioni dei dipendenti o al massimo confermativo delle decisioni prese in altre sedi dal management.

I gruppi di lavoro auto-regolanti sono già stati sperimentati, dando ottimi risultati sia dal punto di vista della salute psicologica e della soddisfazione dei lavoratori, sia da un punto di vista di efficienza lavorativa e di produttività. Essi consistono in gruppi di lavoro ai quali viene affidata la piena responsabilità di un ciclo operativo o produttivo completo, senza che nessun membro del gruppo abbia un ruolo prefissato al suo interno. La suddivisione dei compiti all'interno del gruppo avviene a seconda delle capacità dei suoi membri e delle esigenze del lavoro da compiere. In questo modo si affida tutta la responsabilità delle operazioni al gruppo nel suo insieme, all'interno del quale ogni suo membro si sente parte in gioco del meccanismo produttivo e si impegna al massimo per ottenere il migliore risultato possibile. I membri del gruppo sono completamente liberi di gestire le operazioni da compiere come meglio credono, senza dover sottostare ad alcun tipo di ingerenza esterna, ovviamente nei limiti posti dalla tecnologia esistente e dalle norme di sicurezza e di correttezza da rispettare. Questo tipo di esperienza in cui ai lavoratori era affidato un ruolo partecipativo nel processo decisionale riguardante la produzione, ha evidenziato la possibilità di ottenere un'alta produttività senza la necessità di controllare il personale tramite supervisori, abbassando così i costi di produzione e mantenendo elevata la qualità dei prodotti.

Lo stesso modello giapponese, tanto apprezzato e imitato negli ultimi anni anche in Occidente, applica il coinvolgimento dei dipendenti nelle decisioni riguardanti la produzione attraverso i circoli di qualità (quality circles o QT). Tutto avviene in base al principio di "jidoka" che stabilisce il diritto-dovere degli operai di interrompere il flusso produttivo ogni volta che scoprono dei difetti o delle anomalie, per effettuare immediatamente la correzione necessaria. In questo caso la partecipazione dei dipendenti è immediata e applicata al flusso produttivo al fine di migliorare la qualità finale del prodotto. Non è questo, però, l'unico modo in cui avviene il coinvolgimento dei dipendenti. La presenza, nel modello giapponese, di gruppi di lavoro al cui interno è sempre possibile, grazie alla polivalenza delle capacità professionali, un interscambio delle posizioni e adattare sia la loro consistenza numerica che la loro strutturazione interna ai diversi compiti che si trovano a dover svolgere; rende possibile, attraverso discussioni di gruppo stimolate da suggerimenti individuali, apportare continui cambiamenti nel modo di produzione, attuando così la filosofia del "kaizen" (il miglioramento continuo). Il kaizen avviene attraverso il coinvolgimento e la partecipazione di tutta la comunità aziendale, in un clima di collaborazione, e i suoi risultati sono in continuo divenire, mai statici e definitivi.

Alla base del kaizen c'è la ferma convinzione - teorizzata e sostenuta da Koike - che gli operai siano in possesso di una grande capacità intelletuale-pratica. Non si tratta solo di abilità nelle operazioni di routine, ma di capacità di soluzione dei problemi posti dalle innovazioni tecnologiche e di collaborazione attiva con gli ingegneri al fine di ottimizzare la qualità della produzione. Le capacità degli operai trovano un riconoscimento tangibile nelle differenze salariali e nelle opportunità di fare carriera nel lungo periodo.

Il modello giapponese ha come elemento unificante - secondo Aoki - il coordinamento orizzontale, che sostituisce il coordinamento gerarchico tipico dei sistemi burocratici. Lo stesso Aoki riconosce, comunque, che il coordinamento orizzontale e adatto per affrontare fluttuazioni comprese all'interno di una certa gamma, ma non cambiamenti drastici, per i quali anche nelle imprese giapponesi interviene il coordinamento centrale. La funzione principale del coordinamento orizzontale è:

"creare un sistema il più possibile integrato tra flusso delle informazioni e flusso della produzione, allo scopo di garantire un adattamento flessibile alle fluttuazioni della domanda di mercato con il minimo ricorso alle scorte di magazzino."

Ciò può avvenire solo a determinate condizioni, cioè tramite:

"- l'interiorizzazione nei singoli reparti di obiettivi coerenti con l'obiettivo globale dell'impresa;

- l'autonomia di ogni reparto nell'individuare e affrontare i propri problemi interni;

- l'integrazione delle capacità possedute dai membri del gruppo in modo da consentire l'uso efficace di tutta l'informazione disponibile localmente."

Un elemento fondamentale per l'applicabilità del modello giapponese rimane la disponibilità dei dipendenti alle esigenze produttive dell'azienda, anche nei termini di ore di lavoro straordinario. Questo potrebbe costituire un limite per l'applicabilità del modello giapponese all'interno di un sistema politico-istituzionale di democrazia diretta, poichè anche questa richiede una certa disponibilità di tempo. Il problema appare comunque risolvibile attraverso una differente strutturazione dei turni di lavoro.

I gruppi di lavoro auto-regolanti e il modello giapponese non sono però l'unica possibilità per organizzare in modo partecipativo il lavoro. Un'altra proposta da tenere in considerazione, è rappresentata dal modello di organizzazione del lavoro in senso partecipativo fatta da Likert. Anche Likert fonda la sua proposta sui gruppi di lavoro, strumento efficace perchè i suoi membri sviluppino un alto grado di lealtà nei confronti del gruppo di cui sono parte, aumentino le loro capacità di interazione ottenendo in questo modo alti livelli di rendimento. La particolarità del modello proposto da Likert consiste nei cosiddetti "perni connettori" (linking pins), cioè di membri che fanno parte contemporaneamente di due diversi gruppi sovrapposti in modo gerarchico: essi partecipano al gruppo superiore in qualità di membri coinvolti nelle decisioni, e allo stesso tempo sono responsabili del gruppo posto gerarchicamente più in basso. Questo meccanismo dovrebbe consentire - secondo Likert - di ottenere sia una certa specializzazione dei gruppi, che la loro interconnessione grazie al continuo scambio comunicativo e all'influenza reciproca.

Likert è un fermo sostenitore dell'opportunità di arrivare a un modello di management partecipativo, il quale è in grado di raggiungere una serie di risultati positivi:

"[...] una tale organizzazione darà come risultato un'elevata produttività; prodotti di alta qualità; bassi costi; un basso grado di rotazione e di assenza; un'elevata capacità di adattarsi in modo efficiente ai cambiamenti; un grado elevato di entusiasmo e di soddisfazione da parte dei dipendenti, clienti e azionisti; buone relazioni con i sindacati."

Inoltre, in una sua opera successiva, Likert confronta il modello partecipativo con quelli autoritari, giungendo alle seguenti conclusioni:

"[...] i modelli [di management] più autoritari hanno maggiori probabilità di raggiungere soddisfacenti standard di rendimento entro tempi più rapidi dei modelli democratico-partecipativi. Tuttavia, dopo un periodo generalmente di circa due anni, la curva di rendimento ottenuta con il modello autoritario tende ad appiattirsi e in certi casi a decrescere, mentre il rendimento connesso all'adozione di modelli partecipativi comincia ad aumentare fino a superare il livello connesso al modello autoritario."

I modelli partecipativi fin qui presentati non esauriscono certamente le alternative possibili da poter applicare in un sistema politico-istituzionale fondato sulla democrazia diretta. Essi hanno come unico scopo quello di dare un'idea su quali forme organizzative del lavoro potrebbero essere attuate, senza però avere la pretesa di imporre uno di questi modelli in modo particolare. Pensando a una nuova economia si può solo dire quali dovrebbero essere i criteri guida che essa dovrebbe seguire, scegliere a priori un solo modello organizzativo sarebbe limitativo, oltre che sbagliato; una simile scelta può e deve avvenire solo nel momento in cui si conoscono le situazioni specifiche di dove viene applicata la democrazia diretta e quindi, di conseguenza, la nuova economia. Solo allora, in base alle particolari situazioni economio-sociali-culturali presenti, si potrà scegliere un modello di organizzazione partecipativa per le imprese, che potrebbe anche essere differente a seconda del settore economico della singola impresa. Il modello che si deciderà di applicare potrebbe essere quello giapponese, quello di Likert dei perni connettori, o anche qualsiasi altro modello purché contenga in sé degli elementi partecipativi che corrispondano alle esigenze che abbiamo espresso in precedenza (vedi Tab. 9.1).

9.1.2 - Public company: la proprietà ai dipendenti

Fino ad ora si è detto che le decisioni ad alto livello spettano solamente ai managers di professione e ai proprietari delle imprese: ai primi per la loro preparazione e competenza; ai secondi, per il rischio economico che la loro posizione comporta. La partecipazione dei proprietari a questo tipo di decisione potrebbe anche essere semplicemente limitata all'approvazione, o meno, delle proposte fatte dai managers di professione. Ai proprietari spetta comunque la possibilità di decidere la sostituzione dei dirigenti che gestiscono la loro impresa, qualora si siano dimostrati incapaci o, in ogni caso, non all'altezza delle aspettative riposte su di loro.

Non abbiamo però precisato chi siano, o chi dovrebbero essere, i proprietari delle imprese. Senza voler per forza imporre un simile modello a chi è già proprietario, riteniamo che sarebbe estremamente utile, oltre che coerente con un sistema politico ed uno economico che si fondano sulla partecipazione estesa a tutti i loro membri, introdurre, ed allargare il più possibile, forme di proprietà che si estendano a tutti i dipendenti delle varie imprese, cioè attuare quella che comunemente viene chiamata "public company". Il nostro è un caso particolare di public company che potremmo definire come "employees company", in cui una certa percentuale di azioni verrebbe riservata ai dipendenti.

L'utilità risiede nel fatto stesso che con una simile scelta, estendendosi la proprietà a tutti i dipendenti - preferibilmente in parti uguali, o comunque non oltre certe percentuali - verrebbero meno molte delle ragioni che fino ad oggi hanno comportato dei conflitti e delle tensioni, che si sono estese anche a livello sociale, tra la proprietà e i lavoratori, o, come direbbe Marx, "tra i capitalisti e il proletariato". All'interno di una simile forma di proprietà, quegli interessi che fino ad oggi erano stati sola prerogativa della classe imprenditoriale si estenderebbero anche alla classe dei lavoratori-dipendenti; dall'altra parte, le esigenze che fino ad oggi erano rimaste prerogativa dei lavoratori, diverrebbero parte integrante di quelle sentite dalla proprietà. I due opposti si unirebbero, tutti diverrebbero allo stesso tempo "capitalisti" e lavoratori-dipendenti.

All'interno di un'impresa in cui i lavoratori sono anche i proprietari diviene pienamente legittimo che essi partecipino alle decisioni sia di basso, che di alto livello. Ovviamente permane la maggiore competenza da parte dei managers di professione, che hanno in ogni caso l'importante ruolo, soprattutto per ciò che concerne le decisioni di alto livello, di studiare a fondo i problemi e proporre le soluzioni più adeguate; dall'altro lato, spetta ai lavoratori-proprietari accettare o rifiutare le scelte dei managers. E' chiaro che la maggior competenza dei managers permette loro di avere comunque un notevole peso sulle decisioni di alto livello da prendere, sia che si tratti di decidere il tipo di investimenti da fare o la politica che l'azienda dovrà seguire, sia che si debbano prendere quelle decisioni così impopolari e sgradite come la chiusura di uno stabilimento, o il suo trasferimento in un altro luogo, avendo come conseguenza fenomeni di disoccupazione diffusa. In questi casi, la partecipazione dei lavoratori a simili decisioni, essendo essi contemporaneamente dipendenti e proprietari, quindi coinvolti da un doppio legame con le sorti dell'azienda, li renderebbe più consapevoli delle conseguenze che entrambe le alternative - cioè la chiusura dello stabilimento o il suo continuare ad esistere, in quel luogo o altrove - comportano. In simili situazioni si potrebbe rivelare più proficuo decidere di mutare il tipo di bene prodotto, se il problema riguarda delle difficoltà di piazzarlo sul mercato.

Il fatto che il lavoratore sia anche proprietario e che partecipi quindi sia alla divisione degli utili dell'azienda, sia, in caso di difficoltà, ai passivi, li rende più sensibili verso il problema dei costi di conduzione dell'azienda e quindi anche più attenti a non provocare costi aggiuntivi inutili.

Per quanto concerne la retribuzione, poco cambierebbe dal sistema attuale, se non forse una maggiore attenzione verso il riconoscimento della qualità e della quantità del lavoro compiuto. Oltre alla normale retribuzione, diversificata a seconda del livello e del tipo di incarico, vi sarebbe - come già accennato - anche la partecipazione di ciascun lavoratore alla divisione degli utili dell'impresa secondo la percentuale di azioni da essi possedute. Nei periodi di recessione economica sarebbe interesse degli stessi lavoratori-proprietari riorganizzare i turni e gli orari di lavoro in modo tale da adattarsi alla minore necessità di personale, riducendo così i costi per l'azienda, in attesa di periodi migliori. Al limite, potrebbero essere resi più accettabili anche dei periodi di "temporanea inattività", durante i quali, però, il lavoratore, messo temporaneamente in disparte, mantiene la titolarità delle azioni che gli attribuiscono la partecipazione alla proprietà dell'impresa, e con la garanzia che si tratterebbe effettivamente di un periodo di inattività temporanea, poichè tutti i lavoratori dovrebbero alternarsi a turno.

La partecipazione dei lavoratori alla proprietà dell'impresa nella quale lavorano sembra una scelta eticamente più giusta, poiché in questo modo, oltre a renderli parte interessata delle sorti economiche della ditta stessa, si eviterebbero quelle odiose disparità e sperequazioni tra il mondo imprenditoriale e quello dei lavoratori, che ha caratterizzato il capitalismo fin dalla sua nascita.

Come abbiamo detto in apertura, questa scelta in favore delle public company non deve ledere al diritto di proprietà di coloro che hanno già avviato un'attività imprenditoriale basata su strutture di proprietà diverse; come pure deve rimanere aperta la possibilità per un privato di assumersi tutto il rischio economico di un'impresa non facendo partecipare i lavoratori alla proprietà, essi avranno comunque il diritto di partecipare alle decisioni prese all'interno di queste. Lo Stato dovrà però fare in modo di favorire il più possibile la diffusione della partecipazione dei dipendenti, in parti uguali, alla proprietà dell'impresa nella quale lavorano, e ciò deve avvenire sia grazie a una capillare informazione che faccia prendere piena consapevolezza ai lavoratori di questa opportunità in loro possesso, sia attraverso facilitazioni economiche che inducano a preferire questa struttura della proprietà rispetto alle altre nel mondo dell'impresa economica.

La tabella 9.2 riassume in modo schematico i punti più importanti che riguardano le public company.

 

Tab. 9.2 Le public company nel modello completo di democrazia diretta

- Caratteristiche:

A- la proprietà dell'impresa:

a- è distribuita in parti uguali a tutti i dipendenti

b- è distribuita a tutti i dipendenti, con un limite al possesso personale di azioni

B- i lavoratori dipendenti-proprietari sono così pienamente legittimati a partecipare anche alle decisioni di alto livello, approvando o meno le proposte dei managers di professione:

a- decisioni su investimenti e politiche economiche dell'azienda

b- decisioni di chiusura azienda, o spostare in altro luogo, o cambiare tipo di produzione

C- i lavoratori dipendenti-proprietari possono decidere la sostituzione dei managers

D- i lavoratori dipendenti-proprietari hanno così maggiori responsabilità e interessi nell'impresa: unione degli interessi tradizionalmente opposti (la proprietà e i lavoratori)

E- i lavoratori dipendenti-proprietari hanno diritto alla retribuzione normale, con differenze a seconda del ruolo e dei meriti (qualità e quantità di produzione)

F- i lavoratori dipendenti-proprietari partecipano agli utili/costi secondo le percentuali di azioni da essi possedute

G- la public company, pur essendo il modello di proprietà d'impresa da preferire, non vuole ledere il diritto di proprietà oggi esistente:

a- chi è già proprietario di un'impresa rimane tale;

b- chi vuole assumersi in proprio il rischio economico di un'impresa può farlo

H- lo Stato deve favorire la diffusione delle public company:

a- conoscenza e consapevolezza,

b- mezzi e facilitazioni

- Motivazioni etiche, economiche e sociali:

A- maggiore giustizia distributiva, minori sperequazioni

B- eticamente più giusto e più coerente col sistema politico ed economico partecipativo

C- riduce i conflitti sociali derivanti dalle tensioni tra le parti fino ad ora avverse - i proprietari delle imprese e i lavoratori - ma adesso divenute una sola: i lavoratori dipendenti-proprietari

 

9.1.3 - La nuova organizzazione del lavoro

L'organizzazione del lavoro, fin dall'inizio dell'industrializzazione, ha teso verso la razionalizzazione e l'organizzazione del tempo e dello spazio. Molti sono i modelli che sono stati studiati per ottenere questi scopi. In particolare, due di essi, il modello taylorista e quello fordista, hanno avuto una certa rilevanza e diffusione per un arco di tempo abbastanza esteso, anche se hanno provocato una serie di conseguenze non pienamente previste e desiderate che hanno portato, in seguito, alla loro sostituzione con altri modelli.

L'opportunità offerta dall'utilizzazione di nuovi macchinari e dai computer ha consentito una maggiore flessibilità di tutto il processo produttivo, modificando anche i tempi e l'organizzazione del lavoro. Negli ultimi tempi è stato evidenziato che l'organizzazione del lavoro sta seguendo un processo di "colonizzazione della notte": sempre più industrie, soprattutto nel settore dei servizi, estendono il loro lavoro lungo l'arco di tutte le 24 ore, grazie all'organizzazione di turni di lavoro.

Un problema a diffusione mondiale come la disoccupazione, che coinvolge anche i paesi più sviluppati economicamente, tanto da indurli ad innalzare quello che viene ritenuto il tasso naturale di disoccupazione. Negli anni '90 un tasso di disoccupazione del 5-6% viene considerato soddisfacente, mentre qualche decennio prima avrebbe destato preoccupazione un tasso del 2-3%. Come direbbe Gordon: "non c'è nulla di naturale in un tasso di disoccupazione del 6%". Alcuni paesi europei, valutata attentamente la gravità del problema (vedi Tab. 9.3), hanno incominciato a considerare l'idea di adottare come soluzione parziale una riduzione degli orari di lavoro, al fine di permettere a più persone di entrare a far parte del mondo del lavoro, anche se per ora il dibattito è ancora aperto e la proposta incontra notevoli resistenze.

 

Tab. 9.3 Indicatori del mercato del lavoro e della disoccupazione nei paesi della CEE - 1990

Paesi Europei

Tasso di disoccupazione

Tasso di attività

Tasso di occupazione

M

F

M

F

M

F

Eur 12

8,4

11

54,6

42,4

50

37,8

Belgio

7,3

11,4

47,6

36

44,1

31,9

Francia

9,4

12,2

55

46

49,8

40,4

Germania RFG

4,9

6,1

57,4

44,9

54,6

42,1

Grecia

7

11,7

49,1

34,9

45,7

30,8

Irlanda

14,1

15

51,7

34,5

44,4

29,4

Italia

9,8

15,7

49

34,5

44,2

29,1

Lussemburgo

1,6

2,3

50,1

33,6

49,3

32,8

Olanda

7,8

11

56,1

43,3

51,8

38,5

Portogallo

4,7

6,5

57,8

46,8

55,1

43,8

Regno Unito

7

6,6

62,1

51,7

57,8

48,3

Spagna

16,3

24,2

47,5

31,9

39,8

24,2

Nota: il Tasso di occupazione è la % di occupati sul totale della popolazione

 

In realtà, già fin dai primi anni '80 uno studioso come Gorz aveva sottolineato nei suoi scritti l'inadeguatezza dell'organizzazione del lavoro esistente rispetto alle esigenze produttive delle società Occidentali. Gorz afferma che:

"l'era del pieno impiego in un singolo lavoro retribuito è finita. Gli sviluppi tecnologici ci hanno portato al punto che in Occidente sono sufficienti solo 20.000 ore di lavoro nella vita di ciascuno per produrre tutto ciò di cui abbiamo bisogno. [...] Non possono più esserci lavori retribuiti a tempo pieno per tutti; e il lavoro salariato non può restare il centro di gravità o addirittura l'attività centrale delle nostre vite. Qualunque politica neghi ciò, qualunque siano le sue pretese ideologiche, è falsa."

Quanto detto da Gorz è assai significativo, soprattutto se si pensa che le 20.000 ore corrispondono a circa 9 anni, lavorando 8 ore al giorno e per cinque giorni alla settimana. Anche se questi calcoli fossero imprecisi, rimane comunque il fatto che è impossibile, con l'attuale organizzazione degli orari di lavoro, riuscire ad ottenere la piena occupazione, come è altrettanto assurdo, se non ci fossero delle esigenze di cassa, pensare di far lavorare fino a 60-65 anni una persona prima di permettergli di andare in pensione. Senza voler approfondire eccessivamente il discorso, unendo questi dati con quelli di Gorz si nota subito l'inadeguatezza del sistema attuale, come appare altrettanto evidente la ragione per cui in tutti i paesi europei una grossa fetta della torta della disoccupazione riguarda i giovani, sempre più costretti a rimanere a lungo nella loro famiglia di origine, ritardando il momento in cui si organizzano la loro vita in modo indipendente da quella dei loro genitori, poichè, non liberandosi i posti di lavoro, incontrano notevoli difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro.

Gli studi che sono stati sviluppati nel corso degli anni per spiegare le cause e verificare gli effetti della disoccupazione sono innumerevoli, da essi hanno preso vita molte teorie, alcune profondamente diverse e in netto contrasto tra loro, altre che si integrano e compongono un quadro sempre più completo sul problema in questione, pur rimanendo problematico trovare la soluzione definitiva.

Gorz, in "Addio al proletariato", identifica come possibile soluzione a questo stato di cose un sistema di produzione pianificato e programmato in cui gli individui dovrebbero contribuire per 20.000 ore lavorative, in cambio guadagnerebbero a sufficienza per rivendicare l'accesso ai vari beni e servizi di cui ciascuno di loro necessita per la sua vita quotidiana. Nel suo sistema l'impiego retribuito non sarà più l'attività centrale della vita, la realizzazione degli individui avverrà al di fuori della sfera del lavoro, in quella che lui chiama "la sfera della sovranità individuale", cioè:

"La sfera della sovranità individuale non si basa su un mero desiderio di consumo, né unicamente sul relax e sulle attività di svago. Si basa, più profondamente, su attività non collegate ad alcuno scopo economico e che sono un fine in se stesse. Essa, perciò, comprende sia il consumo passivo che quello attivo [...] cioè l'uso dei mezzi di consumo in "lavoro informale", le attività per autoconsumo, il fai-da-te e anche lo svago televisivo."

Per ciò che concerne la sempre viva rivalità tra liberalismo economico e sistemi basati sul controllo statale, Gorz suggerisce di affidare la sfera della produzione allo Stato, mentre ritiene più idoneo affidare la sfera del consumo ai privati. I suoi critici contestano a Gorz la mancata precisazione di come il potere statale possa essere usato nella sfera della produzione per salvaguardare l'autonomia di quella del consumo. A colmare questa lacuna del modello di Gorz interviene Saunders, il quale propone:

"una riforma del ruolo dello Stato nella sfera del consumo che comporti un passaggio da forme di assistenza diretta a trasferimenti monetari; poiché, pur se questo non inaugurerà una nuova età di libertà e autodeterminazione, almeno aumenterà enormemente la capacità della gente di controllare e determinare certi aspetti centrali della propria vita."

Di notevole interesse sia l'analisi che le proposte fatte da Aznar nella sua recente opera "Lavorare meno per lavorare tutti: venti proposte". In questo testo individua le modifiche che sono intervenute all'interno della società moderna, e in particolare le innovazioni tecnologiche che hanno permesso, oltre che di migliorare la qualità, di ridurre anche il tempo necessario per produrre una stessa quantità di prodotto. Si apre così la possibilità di avere a disposizione un "tempo nuovo" che è stato "liberato dal lavoro", ma emerge anche l'esigenza di riorganizzare gli stessi tempi di lavoro e di adeguarli alle modifiche appena accennate.

"[...] la necessità della spartizione del lavoro è il rovescio della medaglia il cui diritto è la spartizione o, meglio, la redistribuzione di un tempo che la produttività ha liberato dal lavoro, di un "tempo nuovo" che ciascuno/a potrà "sottrarre al sistema" e rendere disponibile "per una e mille attività autodeterminate":

- redistribuire il lavoro per garantire a ogni cittadino il diritto politico di partecipare alla creazione collettiva di ricchezze e di acquisire attraverso questa partecipazione poteri politici, economici, sociali, compreso il potere di contestare la natura delle ricchezze prodotte e la maniera di produrle e ripartirle;

- redistribuire il tempo liberato dal lavoro affinché tutti possano lavorare sempre meno, sempre meglio e sviluppare, accanto al lavoro richiesto dal buon funzionamento della megamacchina sociale, le capacità e le facoltà umane che il lavoro lascia inespresse.

Avere due vite: l'una mediante la quale si prende il proprio posto nella megasocietà e si esercita un peso su di essa; l'altra mediante la quale si appartiene a se stessi, ai propri cari, a reti microsociali autorganizzate in vista di una libera cooperazione, in vista di scambi reciproci e della realizzazione del bene comune."

In questo modo Gorz, nella prefazione del testo di Aznar, spiega il contenuto delle analisi di questo autore, che possono venire sintetizzate nello slogan lanciato da Aznar:

"lavorare a mezzo tempo, significa doppio tempo per vivere"

Frase densa di significati e di prospettive future, come ci spiega lo stesso Gorz:

"Significa per ciascuno/a di appartenere a due sfere di una "società bipolare", quella del lavoro macrosociale determinato dalle esigenze funzionali del sistema e quella delle attività autodeterminate, private o pubbliche, individuali o cooperative rette da valori e criteri diversi da quelli del denaro e dal mercato. La società bipolare è l'alternativa e l'antidoto alla società duale[]."

Quali sono allora i modi in cui Aznar propone di riorganizzare il mondo del lavoro? Egli analizza 6 diverse strategie, ulteriormente suddivise in 20 proposte, che noi riportiamo in modo abbastanza schematico nella tabella 9.4.

 

Tab. 9.4 Le strategie di Aznar per la riorganizzazione del lavoro: 20 proposte.

Strategia 1:

Riduzione del tempo di lavoro (35-32 ore) senza ridurre i redditi.

Si tratta di una strategia di riduzione massiccia della disoccupazione che si basa su tre princìpi fondamentali:

A - una riduzione della durata del lavoro crea posti di lavoro solo se è massiccia e immediata;

B - una riduzione della durata del lavoro è credibile per le imprese solo se non comporta un aumento di costi di produzione;

C - una riduzione della durata del lavoro è accettabile da parte dei salariati solo se non comporta diminuzione dei loro redditi.

Al fine di soddisfare questi tre princìpi esistono tre condizioni necessarie e sufficienti da soddisfare congiuntamente:

A - ammortizzare meglio gli impianti: far lavorare di più le macchine facendo così rendere di più il capitale immobilizzato, sviluppando il lavoro a squadre;

B - assicurare la compensazione salariale attraverso "il secondo assegno": il salario è composto da una parte che viene versata dall'impresa, e da una seconda componente finanziata in modo esterno all'impresa (lo Stato);

C - avviare questo processo nel quadro di una concertazione a tutti i livelli, con la rappresentanza sindacale e padronale.

Proposta 1:

Obiettivo 35 ore, presto 32 ore:

Ogni volta che un'impresa (o un servizio pubblico) aumenta la durata di utilizzazione dei suoi impianti industriali, ovvero apre per più tempo i suoi uffici, i suoi magazzini, le sue agenzie, riducendo la durata del lavoro dei salariati attuali (almeno 35 ore) e assumendo una seconda squadra, lo Stato completa la metà della compensazione salariale, in modo da mantenere il reddito integrale e diminuire l'ammontare della compensazione che tocca all'impresa.

D'altra parte, al fine di coprire le spese di riorganizzazione, l'impresa gode di vantaggi fiscali o sociali.

Proposta 2:

Il week-end di 3 giorni:

Si incoraggia la settimana di 4 giorni con due squadre, si facilita il week-end di 3 giorni, modificando gli orari scolastici. Esistono due alternative per godere del week-end di 3 giorni:

A - senza perdita di reddito, se l'impresa assume una seconda squadra (la compensazione è pagata per metà dall'impresa e per metà dallo Stato);

B - con diminuzione di salario non compensata, si tratta di un tempo parziale volontario.

Proposta 3:

Una quarta squadra per ridurre il lavoro notturno:

In tutti i casi in cui le imprese utilizzano il sistema del lavoro con 3 squadre (3 turni di 8 ore), esse saranno invitate ad assumere una quarta squadra, senza che ciò comporti una riduzione del reddito dei salariati, né un costo supplementare per l'impresa ("secondo assegno"). La quarta squadra servirà soprattutto a ridurre la durata del turno di notte.

Strategia 2:

Spartizione della disoccupazione: spartire il lavoro riducendo i salari.

Proposta 4:

Organizzare e sostenere:

Quando i salariati accettano di ridurre i loro salari per evitare i licenziamenti, la collettività ne condivide lo sforzo e compensa il 50% della loro perdita con un secondo assegno.

In caso di risanamento, l'impresa rimborsa questa perdita che costituisce una cambiale per l'impresa stessa. Questa proposta può essere suddivisa in diverse fasi:

1- esaurire le possibilità di tempo parziale scelto;

2- sostenere;

3- il risanamento;

4- attenzione all'effetto perverso: il secondo assegno deve andare a beneficio dei salariati, non deve venire utilizzato dai datori di lavoro come pretesto per diminuire i salari, ponendolo come alternativa per evitare un rischio di licenziamento fittizio.

Strategia 3:

Il tempo parziale scelto: scegliere di lavorare meno e di guadagnare meno.

A - Lo sviluppo del tempo scelto:

vuol dire valorizzare il tempo di vivere, passare in modo concreto dall'avere all'essere, mettersi in grado di esprimere tutto il proprio potenziale creativo. E' un tempo scelto anche nei suoi ritmi, il che costituisce la forma più caratteristica dell'autogestione. Il tempo della vita individuale è autodeterminato dalla facoltà di sceglierne il volume e il ritmo.

B - Un obiettivo realistico:

l'obiettivo non è tutti nello stesso tempo, ma tutti a un certo momento della vita (il 15% degli attivi), per una durata limitata.

C - Reinventare il tempo parziale:

estendere la proporzione di coloro che lo praticano.

D - Realizzazione (applicazione di due regole):

1- assicurare una compensazione finanziaria (il secondo assegno);

2- rendere elastici i ritmi.

Proposta 5:

Il mezzo tempo classico:

Quando un'impresa autorizza uno dei suoi salariati a passare dal tempo pieno al mezzo tempo, essa beneficia di vantaggi sociali e fiscali.

Quando un salariato sceglie di passare dal tempo pieno al mezzo tempo, egli riceve come complemento del suo mezzo salario un premio di compensazione.

L'ammontare di questi vantaggi, variabile secondo le situazioni, è negoziato con i vari partner sociali.

La formula del "job-sharing", in cui due persone a mezzo tempo occupano un posto a tempo pieno scegliendo liberamente i loro orari, è particolarmente incoraggiata.

Proposta 6:

Il mezzo tempo parentale:

In seguito alla nascita di un figlio, il padre o la madre hanno, oltre al congedo di maternità, la possibilità di beneficiare di un mezzo tempo parentale.

A complemento del loro mezzo salario, essi ricevono una indennità di compensazione, variabile a seconda della durata, a seconda del numero di figli e a seconda del livello di reddito.

Proposta 7:

Il mezzo tempo filiale:

Quando un salariato decide di passare dal tempo pieno al mezzo tempo per occuparsi di un genitore invalido, per tenerlo a casa, riceve una indennità di compensazione.

Proposta 8:

Il mezzo tempo in fase di prepensionamento:

Formazione garantita per chi ha più di 50 anni.

Proposta 9:

Il mezzo tempo di qualificazione:

I salariati con un basso livello di qualifica avranno la possibilità di passare dal tempo pieno al mezzo tempo, per una durata determinata, con garanzia di reimpiego, con una compensazione pari al 100% del loro salario, per seguire un corso di formazione che permetta loro di migliorare la qualifica o di cambiarla.

A sostegno di questa proposta vi sono giustificazioni:

a- a livello personale;

b- a livello collettivo;

c- a livello sociale;

d- al livello dell'impresa.

Proposta 10:

Il mezzo tempo d'inserimento:

Chiunque soffra di un handicap sociale (disoccupati cronici, giovani non inseriti, ecc.) deve poter trovare una occupazione a mezzo tempo e ricevere una indennità di compensazione.

Al fine di sviluppare questo tipo d'impiego si incoraggiano le imprese d'inserimento e si incentivano - o si obbligano - le imprese normali a creare posti di lavoro d'inserimento a mezzo tempo e sovvenzionati. Le imprese pubbliche e le collettività locali danno il buon esempio.

Questa proposta è complementare alla precedente: mentre si incita alcuni a lasciare il tempo pieno, liberando posti di lavoro, si facilita l'inserimento tramite il mezzo tempo.

Proposta 11:

La spartizione del tempo per 1 funzionario su 4:

Lo sviluppo della spartizione del tempo nel settore pubblico - si tratti di un sistema a due squadre nella settimana, o di un sistema di job-sharing a mezzo tempo - dovrebbe essere sostenuto in modo vigoroso, volontaristico, incentivante, al fine di tendere rapidamente ad interessare un funzionario su quattro. Ciò in risposta a tre logiche:

1- una logica di esemplarità;

2- una logica di complementarità;

3- una logica economica.

Il lavoro a tempo parziale deve arrivare a costituire una posizione normale del funzionario nel corso della sua carriera: tutti gli agenti pubblici saranno a mezzo tempo almeno per 5 anni nel corso della loro carriera, senza che ciò comporti alcuna discriminazione per le promozioni. Il passaggio al tempo parziale sarà sempre compensato da assunzioni equivalenti. Il funzionario a tempo parziale riceverà metà stipendio completo, più una compensazione del 30%.

Proposta 12:

L'anno sabbatico:

Per tutti i salariati, possibilità di prendere un anno sabbatico ogni sette. Ciò potrebbe avvenire grazie al "conto risparmio sabbatico" e all'indennità di retribuzione dell'occupazione, che dovrebbero servire a compensare sostanzialmente la perdita di salario per l'anno sabbatico.

Proposta 13:

I congedi di formazione:

Al fine di aggiornare le loro conoscenze, tutti i salariati devono disporre di agevolazioni per seguire un corso di formazione - a tempo parziale o a tempo completo - per una durata determinata.

Durante i periodi di difficoltà, su richiesta dell'impresa, questi congedi di formazione sono particolarmente sovvenzionati.

E' auspicabile che nel corso di questi periodi il salario pagato dall'impresa venisse ridotto, ma fosse compensato da un secondo assegno (dello Stato).

Proposta 14:

Regolamentare il lavoro interinale:

Dare la possibilità di effettuare periodi di lavoro interinale in fase di licenziamento, affinché il salariato non perda il contatto con l'universo professionale, e abbia l'occasione di esplorare altri universi professionali.

Strategia 4:

Tutti i giovani a metà tempo.

A - La disoccupazione dei giovani è uno scandalo sociale assolutamente inaccettabile, e una colpa politica imperdonabile.

B - Non si tratta di ridurre la disoccupazione giovanile, ma di fissarci l'obiettivo politico di sopprimerla, facendo in modo che tutti i giovani che lo desiderano possano lavorare a mezzo tempo, il che presuppone che fino a una certa età nessun giovane lavori a tempo pieno.

Proposta 15:

Lavoro e formazione professionale in alternanza:

Tutti i giovani da 19 a 21 anni che lavorano a mezzo tempo, possono studiare a mezzo tempo, se lo desiderano.

Le imprese sono invitate a trasformare gli attuali posti di lavoro di giovani a tempo pieno in posti a mezzo tempo. Lo scopo è duplice:

1- sopprimere completamente la disoccupazione dei giovani con meno di 21 anni;

2- creare un periodo di transizione per i giovani tra 19 e 21 anni.

Proposta 16:

Il servizio civile per tutti:

Il servizio militare nazionale era stato inizialmente concepito con lo scopo di preparare i cittadini alla difesa militare della nazione, pertanto si rivolgeva ai cittadini maschi.

Attualmente la nostra battaglia principale è di altro genere: il nemico contro cui combattere è la disoccupazione, la società duale.

La concezione del servizio nazionale va dunque rivista - pur rispettando la necessità della Difesa nazionale, che potrebbe venire riservata a soldati di leva volontari - ed esso va trasformato in un vasto servizio civile al quale partecipino tutti i cittadini, di ambo i sessi.

Si tratterebbe di un anno nel corso della vita in cui ognuno si metterebbe a disposizione della collettività pubblica.

Strategia 5:

Sopprimere la disoccupazione cronica.

L'obiettivo è quello di sconfiggere la disoccupazione cronica, cioè quella di lungo periodo che determina situazioni di depressione psicologica e di esclusione sociale.

Proposta 17:

Le nuove società d'inserimento:

Se non esiste occupazione per tutti nelle strutture esistenti, allora bisognerà crearne di nuove.

Ogni persona che rimane senza lavoro oltre una certa porzione di tempo, perde lo statuto di disoccupato, i normali meccanismi di indennizzo scompaiono oltre questa durata e cambiano forma, diventano salari, poichè egli deve diventare lavoratore all'interno di queste nuove strutture economiche:

A - società d'inserimento comunale, dipartimentale, regionale:

questa società non dovrebbe fare la concorrenza alle imprese normali, e avrebbe un duplice oggetto:

1- creare una cellula di mobilitazione per l'occupazione, provocare la creazione di attività nuove o di proporre alle imprese esistenti attività nuove;

2- svolgere attività non redditizie commercialmente, ma aventi una funzione d'interesse generale, come attività: di tipo economico, turistiche, legate all'ambiente, di tipo culturale, di animazione sociale, di assistenza sociale, pedagogiche, di servizio pubblico, di aiuto per i paesi del Terzo mondo.

B - società d'inserimento promosse dai consigli di azienda:

queste società potrebbero svolgere attività nel settore ad essi noto, cercando canali non ancora sfruttati perchè non sufficientemente redditizi, ma che lo diventerebbero in questo contesto.

C - lo sviluppo degli impieghi d'inserimento nelle associazioni:

le associazioni costituiscono un ambiente privilegiato per impieghi di inserimento, sono un vivaio di posti di lavoro.

Strategia 6:

Creare posti di lavoro.

Proposta 18:

Lottare contro le distruzioni eccessive di posti di lavoro:

Esistono alcuni eccessi nella corsa verso la produttività che comportano una distruzione di posti di lavoro legata a uno sviluppo eccessivo degli automatismi in ambiti in cui non sono assolutamente indispensabili, creando, inoltre, un ambiente sgradevole per il consumatore. Alcuni esempi sono costituiti da:

A - la grande distribuzione:

che se da un lato ha portato alle riduzione dei prezzi, dall'altro ha comportato la distruzione dei centri cittadini e dell'occupazione.

Si propone quindi:

1- fermare la tendenza alla distruzione dei posti di lavoro fissando quote di occupazione per metro quadrato;

2- Incitare la grande distribuzione a ricreare posti di lavoro;

3- sostenere il commercio di quartiere, per tre ragioni: esso crea molti posti di lavoro; migliora i rapporti sociali; è accessibile a piedi.

B - le stazioni di servizio:

la loro progressiva automatizzazione sta rapidamente diminuendo l'occupazione in questo settore.

Si propone quindi:

1- boicottare d'urgenza le pompe self-service;

2- proposte legislative volte a impedire le pompe self-service e le stazioni automatiche;

3- rivalutare il mestiere di addetto ai distributori di benzina.

C - le delocalizzazioni tramite il telelavoro:

si propone di sviluppare centri di trattamento a distanza dei dati a livello nazionale, nelle zone rurali, e di creare in questi centri posti di lavoro sovvenzionati, esonerati da oneri sociali, tipo società d'inserimento, per rendere più attraenti le tariffe.

Ci si domanda, inoltre, se non bisognerebbe adottare misure protezionistiche su questo tipo di delocalizzazione, istituendo una tassa sull'importazione di servizi delocalizzati mediante trattamento a distanza, il cui gettito potrebbe essere versato ai paesi meno sviluppati per istituire servizi sociali.

Proposta 19:

Incitare le imprese a fare assunzioni:

A breve termine bisogna frenare la distruzione di posti di lavoro, ridistribuire all'interno i posti di lavoro esistenti e inventare nuovi impieghi produttivi.

L'occupazione deve far parte degli obiettivi dell'impresa, l'occupazione deve diventare uno degli elementi della sua immagine di marca, del suo bilancio sociale, uno degli aspetti del progetto imprenditoriale. Ciò è possibile in due modi:

1- favorire la redistribuzione interna dell'occupazione;

2- sviluppare strategie d'innovazione favorevoli all'occupazione.

Per stimolare l'impresa a questi comportamenti esistono due tipi di incentivi:

1- gli oneri sociali;

2- la fiscalità: alcuni incentivi fiscali.

Proposta 20:

Penalizzare le ore straordinarie:

La pratica assai diffusa delle ore straordinarie corrisponde a un numero importante di disoccupati. Sono già stati fatti tentativi di lotta contro le ore di straordinario, aumentandone il costo, ma senza grandi risultati.

Si propone una doppia strategia d'azione:

1- aumentare il costo delle ore straordinarie;

2- diminuire il costo dell'assunzione supplementare: ad esempio con contributi sociali su una % del salario.

In questo modo si stimolerebbe una sostituzione delle ore di straordinario con le nuove assunzioni.

 

Il fascino delle proposte fatte da Gorz e da Aznar è sicuramente notevole ed influenza, in parte, anche il nostro progetto di riorganizzazione del mondo del lavoro.

Che esista la necessità di un nuovo modello di organizzazione del lavoro appare chiaro da quanto detto fin qui: l'inadeguatezza dei sistemi organizzativi attuali e le sempre nuove esigenze spingono in questo senso. Inoltre, la necessità di maggiore tempo a disposizione dei cittadini per le attività politiche partecipative, richiesta da una struttura politico-istituzionale come quella presente nel nostro modello di democrazia diretta, si combina alla perfezione con il nuovo tempo liberato dal lavoro, e impone di rivederne l'organizzazione.

La nuova organizzazione del lavoro, oltre all'introduzione di forme piene o parziali di partecipazione nel mondo dell'industria, prevede la ristrutturazione del sistema degli orari, dei turni e dei contratti di lavoro cercando di tenere in considerazione tutte le esigenze delle diverse parti in causa: delle ditte, che hanno l'esigenza di ridurre i costi produttivi, e uno dei mezzi è quello di non dover spegnere i loro macchinari, ma anzi mandarli a ciclo continuo; dei lavoratori, che sperano di potersi sentire maggiormente realizzati attraverso il lavoro, ma anche tramite una vita privata più soddisfacente; dei disoccupati, che hanno un bisogno vitale di entrare di nuovo (o per la prima volta) a far parte del mondo del lavoro; e del sistema politico partecipativo, che per svilupparsi adeguatamente richiede una maggiore disponibilità di tempo da parte dei cittadini.

Ben tre di queste esigenze - quella dei disoccupati in cerca di lavoro, quella dei lavoratori di potersi realizzare maggiormente nella vita privata e quella di maggiore tempo a disposizione dei cittadini per la politica - spingono nella direzione di una riduzione drastica degli orari di lavoro. "Lavorare meno per lavorare tutti" sembra essere la risposta più semplice, ma anche la più efficace, ai problemi della disoccupazione che oggi assilla molti paesi, inoltre un orario di lavoro ridotto - ad esempio di 5 ore al giorno e senza la possibilità di fare gli straordinari - consentirebbe di avere più tempo a disposizione da poter dedicare sia alla propria vita privata, sia alla politica partecipativa richiesta dal modello di democrazia diretta. Una risposta di questo tipo, però appare troppo semplicistica e non tiene minimamente in considerazione le diverse esigenze degli stessi lavoratori, per alcuni dei quali non sarebbe sufficiente sia dal punto di vista della realizzazione personale, che da quello del sostentamento economico, un orario così ridotto di lavoro. La soluzione risiede in un sistema diversificato e abbastanza flessibile di diverse tipologie di contratti di lavoro, differenti sia per ore giornaliere lavorate, che per turni e periodi di lavoro; nei quali, tuttavia è sempre presente una riduzione complessiva rispetto alle ore lavorate al giorno d'oggi. Una ipotesi potrebbe essere quella di una serie di contratti di lavoro così suddivisi:

1) per ciò che concerne la diversa strutturazione dell'orario di lavoro:

a- contratti a tempo pieno: con 7 ore al giorno per 5 giorni alla settimana;

b- contratti per turni settimanali: con 7 ore al giorno per 2 o 3 giorni a settimana;

c- contratti a orario ridotto: con 4 o 5 ore al giorno per 5 giorni alla settimana;

2) per quanto riguarda la durata complessiva del contratto:

d- contratti a lunga scadenza: della durata di 5, 10 e 15 anni;

e- contratti a tempo determinato: alcuni della durata di 6 mesi, altri di 1 anno, per rispondere alle esigenze delle imprese di avere una certa flessibilità per adattarsi in tempi brevi alle mutate condizioni economiche (periodi di recessione o di espansione), in ogni caso questo tipo di contratti non dovrebbe superare il 20% di quelli stipulati con i dipendenti dalla ditta;

f- contratti stagionali: per quei lavori che richiedono la presenza del lavoratore solo in determinati periodi dell'anno.

Ovviamente, qualora le esigenze del lavoratore mutassero nel corso del tempo o degli anni - ma non le esigenze dei datori di lavoro - dovrebbe essergli consentito richiedere di mutare la tipologia del contratto (a-b-c).

Una simile diversificazione di contratti (d-e-f), e quindi di orari di lavoro (a-b-c), comporterebbe, per l'impresa, una organizzazione del lavoro giornaliero da gestire attraverso un sistema complesso di turni (in alcuni casi sovrapposti), ma offrirebbe anche la possibilità, per l'impresa che ne avesse il bisogno e lo ritenesse opportuno, di avere una produzione continua su tutto l'arco della giornata e per tutta la settimana senza interruzioni, evitando, eventualmente anche la chiusura estiva.

Inoltre, la diversificazione dei contratti potrebbe anche riguardare la lunghezza del periodo di vacanze, da concordare col datore di lavoro al momento dell'assunzione e modificabile di anno in anno, questa volta tenendo in considerazione sia le richieste del lavoratore che le esigenze del datore di lavoro. In ogni caso vi sarebbe una lunghezza maggiore dei periodi di ferie rispetto a quelli attuali:

g- contratti con ferie da 5 a 4 mesi: di cui 1 mese di ferie completamente retribuite, 2 mesi di ferie retribuite solo parzialmente (50% del normale stipendio mensile), il rimanente senza alcuna retribuzione;

h- contratti con ferie di 3 mesi: di cui 1 mese di ferie completamente retribuite, 1 mese retribuite solo parzialmente (50% del normale stipendio mensile), e 1 mese senza alcuna retribuzione;

i- contratti con ferie di 2 mesi: 1 mese di ferie completamente retribuite, 1 mese retribuite solo parzialmente (75% del normale stipendio mensile). In quest'ultimo tipo di contratto si potrebbe anche inserire la possibilità di chiedere un anno sabbatico ogni 10 anni di lavoro, seguendo le indicazioni di Aznar (proposta 12).

Sarà ovviamente necessaria una pianificazione di carattere annuale per stabilire come distribuire le ferie ai diversi dipendenti della ditta, in questa avranno un grosso peso le esigenze produttive della ditta stessa, che tuttavia cercherà di evitare delle diversità di trattamento eccessive tra i suoi dipendenti, facendo in modo di consentire a tutti di usufruire di almeno un mese di ferie nel periodo estivo (giugno-settembre).

Con la dilatazione del periodo di ferie si intende raggiungere più di uno scopo: da un lato, si permette al lavoratore di poter usufruire di un tempo maggiore da dedicare alla comunità in cui vive, alla politica partecipativa, a se stesso e alla propria vita privata, riducendo così anche gli stress da lavoro; dall'altro, si cerca di dare ulteriore vigore all'industria del turismo, sia estivo che invernale, producendo in questo modo una più ampia disponibilità di posti di lavoro stagionali e incrementando le entrate di tutti quei settori dell'industria legati al campo del turismo e dello svago.

Questo nostro nuovo modello di organizzazione del lavoro potrebbe venire completato da alcune delle proposte fatte da Aznar e presentate in precedenza nella tabella 9.4. In particolare riteniamo interessanti le proposte di Aznar per quanto riguarda la riduzione del tempo di lavoro senza ridurre i redditi (strategia 1 - proposte 1-2-3) attraverso l'integrazione del reddito dell'impresa con un secondo assegno di origine pubblica. Interessante, e quindi applicabile, anche la strategia 2, quella che mira alla spartizione della disoccupazione riducendo i salari (proposta 4).

Indubbiamente quella che più si avvicina alle nostre proposte e quindi meglio si adegua al nostro modello di organizzazione del lavoro è la strategia 3 di Aznar, a cui egli da il nome di tempo parziale scelto, suddivisa in una serie di proposte specifiche (in particolare la 5-6-7-8-9-10) assai utili per rendere flessibile l'organizzazione del lavoro. Sempre all'interno di questa strategia Aznar ricomprende la sua proposta (12) di concedere la possibilità di un anno sabbatico ogni sette anni di lavoro; proposta che accogliamo con piacere all'interno del nostro modello di organizzazione del lavoro, anche se con alcune modifiche (ogni 10 anni e solo per il contratto di tipo "i").

Dove invece ci dissociamo da Aznar è nel suo modo di voler risolvere definitivamente la piaga della disoccupazione giovanile, volendo imporre un modello in cui tutti i giovani dovrebbero lavorare a metà tempo (strategia 4 - proposta 15). E' chiaro che è anche nei nostri intenti risolvere in modo definitivo questo problema, ma la soluzione di Aznar ci sembra ledere i diritti dei giovani. I giovani devono avere la possibilità di scegliere il metà tempo come ogni altro lavoratore, deve comunque trattarsi di una loro scelta, non di un obbligo; riteniamo, piuttosto, che le ditte dovrebbero essere obbligate ad assumere una certa percentuale di giovani quando hanno bisogno di nuovo personale.

Condividiamo in pieno, invece, la proposta (16) di istituire un servizio civile per tutti, uomini e donne, in modo tale da rendere un servizio di utilità pubblica per un certo periodo della propria vita (6 mesi o un anno), con un rimborso minimo o addirittura gratuitamente. Ben vengano anche le nuove società d'inserimento (proposta 17) al fine di sopprimere la disoccupazione cronica o di lungo periodo (strategia 5).

Nella strategia 6 Aznar si pone il problema di creare posti di lavoro e cerca di risolverlo attraverso tre proposte (18-19-20): nella prima insiste sulla necessità di lottare contro le distruzioni eccessive di posti di lavoro; nella seconda sul bisogno di incitare le imprese a fare assunzioni; e nella terza sulla necessità di penalizzare le ore straordinarie. Per ciò che concerne quest'ultima noi siamo ancora più drastici, proponendo di sopprimere in modo quasi totale la possibilità di fare ore di straordinario, o limitandone fortemente il numero mensile (massimo 5 ore).

Nel suo complesso, questa drastica riorganizzazione dei tempi e dei modi della vita lavorativa, integrata da alcune delle proposte di Aznar, comporterebbe la possibilità di raggiungere in modo stabile quel pieno impiego che fino ad ora era sembrato possibile solo a livello teorico, o limitato, al massimo, a brevissimi periodi di tempo e a circostanze del tutto eccezionali. Raggiungere il pieno impiego vorrebbe anche dire che ogni nucleo familiare non dovrebbe più fare i propri conti basandosi su un'unica entrata, ma, molto probabilmente ognuno dei suoi membri che fosse in età lavorativa avrebbe un lavoro - stabile o stagionale - e contribuirebbe all'economia domestica. Un maggior numero di stipendi che entrano in un nucleo famigliare vuole anche dire più sicurezza economica, minori possibilità di rimanere senza alcun reddito.

La possibilità di raggiungere in modo stabile il pieno impiego - o addirittura di superarlo - sembra così reale e sicura in un simile sistema - anche grazie ad alcune nuove professioni legate alle innovazioni tecnologiche - da consentire una ulteriore riforma rivoluzionaria: legalizzare la possibilità di avere un secondo lavoro, naturalmente tassato e in modo più severo rispetto al primo impiego.

Un simile sistema, come abbiamo detto, sarebbe sempre in prossimità del pieno impiego, e questo consentirebbe allo Stato di godere di una buona salute economica grazie alle entrate derivanti dalle imposte sul lavoro; l'aggiunta delle entrate derivanti dal secondo lavoro renderebbe ancora maggiore l'entità delle entrate nelle casse dello Stato, e ciò permetterebbe di sviluppare ulteriormente l'economia nel suo complesso: lo Stato sarebbe in grado di aiutare le imprese nei loro investimenti in nuove tecnologie - con un'attenzione particolare allo sviluppo delle piccole e medie imprese - per risultare sempre all'avanguardia e battere la concorrenza dei sistemi economici di vecchio tipo, esterni al modello completo di democrazia diretta. Sempre grazie a queste maggiori entrate, lo Stato sarebbe in grado di organizzare un sistema pensionistico decente, nel quale si potrebbe andare in pensione dopo 30 anni di lavoro a mezzo tempo e con una pensione che consenta un'esistenza più che dignitosa conservando lo stesso tenore di vita, o quasi, del periodo lavorativo, senza essere vincolato in questo suo scopo da eccessivi problemi di cassa; inoltre, potrebbe fornire un sistema di assistenza sociale più efficiente e garantire un reddito minimo di sopravvivenza, che comunque non dovrebbe essere eccessivamente alto, per evitare di togliere gli stimoli al lavoro. La maggiore capacità di spesa dello Stato potrebbe anche consentire un capillare controllo finalizzato ad eliminare il fenomeno del lavoro-nero e dello sfruttamento.

La nuova organizzazione del lavoro non sarebbe completa se non prendesse in considerazione anche la produzione agricola e alimentare. A rischio di risultare impopolare all'interno di queste categorie di lavoratori, essa, in considerazione dei costi enormi che gli stati odierni e la comunità europea devono sostenere per mantenere alti i guadagni degli agricoltori e degli allevatori, prevede la gestione statale di questo settore dell'economia. In questo modo sarebbe possibile, allo stesso tempo, ridurre notevolmente i prezzi dei beni alimentari, razionalizzare la produzione evitando gli sprechi e i costi inutili e ottimizzando la qualità dei prodotti attraverso un severo controllo di qualità. L'allevamento di animali e la coltivazione di prodotti agricoli verrebbe consentita solo al fine dell'auto-consumo privato in ambito famigliare.

La tabella 9.5 riassume in modo schematico tutto quanto è stato fin qui detto a riguardo della nuova organizzazione del lavoro.

 

Tab. 9.5 La nuova organizzazione del lavoro, nel modello completo di democrazia diretta.

La nuova organizzazione del lavoro

- Esigenze da soddisfare:

1- delle ditte: di ridurre i costi produttivi e di non dover spegnere i loro macchinari, ma anzi mandarli a ciclo continuo;

2- dei lavoratori: di potersi sentire maggiormente realizzati nel lavoro e nella vita privata;

3- dei disoccupati: di entrare di nuovo, o per la prima volta, a far parte del mondo del lavoro;

4- del modello di democrazia diretta: che richiede una maggiore disponibilità di tempo da parte dei cittadini per dedicarsi alla politica partecipativa

- Caratteristiche principali:

A- riduzione drastica dell'orario di lavoro

B- contratti di lavoro diversificati e flessibili, integrati da alcune delle proposte di Aznar sul mezzo tempo di lavoro

C- possibilità per le imprese, se ne hanno l'esigenza, di avere un processo produttivo continuo: 24 ore al giorno per 7 giorni alla settimana

D- organizzazione complessa di turni e periodi di lavoro

E- piena occupazione costante, e quindi anche maggiori entrate dalla tassazione sul lavoro

F- legalizzazione del secondo lavoro e sua tassazione (maggiorata rispetto al 1° lavoro)

G- lo Stato, grazie alla ritrovata salute economica dovuta al pieno impiego e alla legalizzazione del secondo lavoro, può:

a- aiutare le piccole e medie imprese nei loro investimenti in nuove tecnologie

b- garantire ai disoccupati un sussidio di disoccupazione, oppore, in alternativa, a tutti un reddito minimo di sopravvivenza, non eccessivamente alto per evitare di togliere gli stimoli al lavoro

c- intensificare i controlli per abolire il lavoro-nero e lo sfruttamento

d- un sistema pensionistico decente:

d1- in pensione dopo 30 anni di lavoro a mezzo tempo

d2- la pensione ha due componenti di diversa provenienza:

1- un reddito fisso garantito a tutti proveniente dalla fiscalità generale;

2- un reddito variabile e proporzionale ai contributi versati durante gli anni di lavoro.

H- agricoltura e allevamento a gestione statale

- Sistema diversificato e flessibile di contratti di lavoro:

1) diversificazione della strutturazione dell'orario di lavoro:

a- contratti a tempo pieno: con 7 ore al giorno per 5 giorni alla settimana;

b- contratti per turni settimanali: con 7 ore al giorno per 2 o 3 giorni a settimana;

c- contratti a orario ridotto: con 4 o 5 ore al giorno per 5 giorni alla settimana;

2) diversificazione della durata complessiva del contratto:

d- contratti a lunga scadenza: della durata di 5, 10 e 15 anni;

e- contratti a tempo determinato: alcuni della durata di 6 mesi, altri di 1 anno, per rispondere alle esigenze delle imprese di avere una certa flessibilità, questo tipo di contratti non deve superare il 20% di quelli stipulati con i dipendenti dalla ditta;

f- contratti stagionali: per quei lavori che richiedono la presenza del lavoratore solo in determinati periodi dell'anno.

3) diversificazione dei periodi di ferie:

g- contratti con ferie da 5 a 4 mesi: di cui 1 mese di ferie completamente retribuite, 2 mesi di ferie retribuite solo parzialmente (50% del normale stipendio mensile), il rimanente senza alcuna retribuzione;

h- contratti con ferie di 3 mesi: di cui 1 mese di ferie completamente retribuite, 1 mese retribuite solo parzialmente (50% del normale stipendio mensile), e 1 mese senza alcuna retribuzione;

i- contratti con ferie di 2 mesi: 1 mese di ferie completamente retribuite, 1 mese retribuite solo parzialmente (75% del normale stipendio mensile). In quest'ultimo tipo di contratto si potrebbe anche inserire la possibilità di chiedere un anno sabbatico ogni 10 anni di lavoro.

- effetti e utilità di 1-2-3:

A- maggiore disponibilità di tempo da dedicare alla politica partecipativa e alla realizzazione nella vita privata (1); "lavorare meno per lavorare tutti";

B- flessibilità utile alle ditte e alle diverse esigenze dei lavoratori (2)

C- stimolare lo sviluppo dei settori dell'industria legati al campo del turismo e dello svago (3)

 

9.1.4 - La nuova morale dell'economia

La morale più diffusa all'interno del mondo economico attuale, costituisce uno dei problemi di fondo del sistema mondiale. La morale predominante é quella del massimo profitto; il fatto che essa abbia origine: da volontà materialistiche presenti nelle società "capitaliste", secondo quella che era l'opinione di Marx; da motivazioni religiose, come sosteneva Weber; o da bisogni di tipo psicologico come quello di realizzare una posizione di potere; poco importa, la cosa grave é che questa morale troppo spesso induce a far ritenere legittima la massima secondo la quale "il fine giustifica i mezzi". Pur di ottenere il massimo profitto non si esita - sia a livello di piccola impresa, che di impresa transnazionale - a sfruttare i più deboli, a provocare danni ecologici irreparabili, o a usare mezzi scorretti per superare o annullare la concorrenza.

Il vero problema dell'economia é quindi la sua morale, che pone come valore più alto, e a volte unico, il massimo profitto. Questa morale crea una eterogeneità di condizioni economiche, sociali e politiche non solo in ambito nazionale, ma anche a livello mondiale.

Proprio questa mentalità, che a livello di Governo pone come interesse prioritario il massimo profitto della nazione, ha provocato quel fenomeno di "colonialismo economico" che é sorto come naturale continuazione del colonialismo vero e proprio. Le nazioni più potenti politicamente e economicamente - USA soprattutto, ma anche i paesi Occidentali - hanno cercato di sfruttare fino in fondo le risorse di materie prime dei paesi del Terzo Mondo che non avevano sviluppato un proprio sistema industriale e, non avendone i mezzi, dovevano appoggiarsi alle nazioni più potenti e sviluppate, e alle industrie multinazionali.

Esistono numerosi esempi che riguardano soprattutto il colonialismo economico degli USA nei paesi del Centro e del Sud America, come pure dei paesi Occidentali nei riguardi delle loro ex colonie africane. E' un modo per amplificare enormemente il potere delle economie nazionali dei paesi più sviluppati e delle industrie transnazionali, a danno dei paesi più poveri che vedono così bloccate o limitate le loro possibilità di sviluppo.

Tutto ciò non fa altro che aumentare il divario fra i paesi ricchi (circa il 5%) e quelli più poveri. Troppo poco si è fatto per mutare questa situazione, questo perché i paesi più sviluppati seguono la morale economica che richiede il massimo sfruttamento per ottenere il massimo profitto.

Esistono per fortuna delle associazioni volontarie - sia religiose che laiche - che cercano di aiutare le popolazioni più bisognose dei paesi del Terzo Mondo; ma sono forme di solidarietà, a volte appoggiate dagli stessi governi dei paesi industrializzati, che non rappresentano una vera e propria soluzione nella direzione dello sviluppo delle economie di questi paesi, ma solo un aiuto di tipo umanitario, un modo come un altro per mettersi a posto la coscienza.

I veri aiuti, quelli che potrebbero risolvere i problemi, dovrebbero avvenire con facilitazioni sul commercio internazionale e con finanziamenti mirati a sviluppare una industria e una economia locale; ma tutto ciò va ovviamente contro gli interessi delle nazioni già industrializzate, e quindi anche contro la loro morale economica. Proprio per questa ragione, finché non si cambierà la morale economica, uno sviluppo industriale mondiale corretto non sarà possibile.

Qual'è allora la morale economica che si deve affermare? Quali criteri etici deve seguire? Verso chi, o verso che cosa pone la sua attenzione? Quali elementi nuovi deve tenere presenti? Queste sono le domande principali che ci si deve porre per capire fino in fondo in cosa consiste la nuova morale economica così insistentemente auspicata e alle quali tra breve daremo risposta.

Prima, però, occorre fare una precisazione: se è vero che questa nuova morale economica è parte integrante del modello completo di democrazia diretta, è altrettanto vero che sarebbe utile la sua introduzione anche nell'attuale sistema politico-economico. Le condizioni che la richiedono, infatti, sono già esistenti da tempo, e l'esigenza di una profonda modifica della morale esistente è ormai diventata un'urgenza che non può attendere oltre. Introduzione o meno della democrazia diretta, la morale economica deve cambiare, preferibilmente seguendo la via tracciata da quella che abbiamo battezzato la nuova morale economica. In verità molti passi in avanti sono stati fatti rispetto al capitalismo delle origini, ma molti altri rimangono ancora da fare e nel più breve tempo possibile.

In cosa consiste, dunque, questa nuova morale economica? In realtà il suo contenuto non è niente di strano o di fantasioso, anzi stupisce che nella prassi non si sia già realizzata, visto che le società moderne si attribuiscono la caratteristica di essere estremamente razionali. La nuova morale economica sottolinea alcuni criteri che già da tempo si sarebbero dovuti tenere in estrema considerazione, ma che per perseguire il massimo profitto si sono spesso lasciati in disparte, provocando disastri enormi alla salute e allo sviluppo intellettuale di molti lavoratori; all'ambiente naturale che è stato spesso distrutto; alle società e indirettamente a tutto il genere umano.

La nuova morale economica richiama l'attenzione sul benessere della società considerata nel suo insieme, che non è detto coincida con il benessere individuale dei suoi componenti, inteso, in questo caso, come benessere materiale e consumistico. Porre l'attenzione sul benessere di una società nel suo insieme vuol dire dare la priorità al bene comune, far crescere nelle persone che la compongono l'amore per la cosa pubblica e per il perseguimento di fini che avranno un'utilità per tutti i membri della società. Questa attenzione al benessere della società non esclude affatto la contemporanea presenza del benessere consumistico-materiale individuale, ma semplicemente sposta la priorità nella direzione della società nel suo insieme, piuttosto che in quella degli interessi egoistici dei suoi singoli componenti. Si tratta di una rivoluzione culturale che oltrepassa i confini della sfera economica, di cui ci stiamo occupando, e coinvolge l'intera società.

Un secondo punto focale della nuova morale economica riguarda una rinnovata attenzione e rispetto per tutto quanto riguarda l'ambiente naturale, anche in considerazione del fatto che in esso devono avere la possibilità di vivere non solo le generazioni presenti, ma anche quelle future. Non si tratta, come appare evidente, di una novità assoluta; già da un po' di tempo alcuni movimenti politici e non-politici hanno posto il problema di un maggior rispetto per l'ambiente naturale e l'ecosistema. Quello che appare diverso da prima, è che questa attenzione nei riguardi della natura deve entrare a far parte integrante della mentalità economica, e non solo dei movimenti ecologisti o delle leggi dello Stato per tutelare l'ambiente. Deve divenire un aspetto da tenere in considerazione spontaneamente e sempre in qualsiasi discorso o progetto che coinvolga il mondo della produzione, l'economia in generale, o qualsiasi altra attività svolta all'interno della società. L'attenzione e il rispetto nei confronti dell'ecosistema deve entrare nella coscienza comune delle persone che compongono la società, poichè è ad esse che nel modello di democrazia diretta, come pure all'interno della nuova economia, che vengono affidate molte delle decisioni fondamentali che possono comportare dei danni irreparabili nei confronti della natura. Non sarà più possibile dare la colpa alla filosofia del massimo profitto perpetrata da qualche privato che ha grossi interessi economici in gioco; nel nostro modello economico, come in quello politico, ogni membro della società si deve assumere completamente le responsabilità delle decisioni che prende. Per questa ragione è così importante, anzi fondamentale che si affermi e si diffonda una nuova morale, una nuova cultura più attenta sia al benessere e al bene della società, che a mantenere intatto - o in alcuni casi ricreare - l'equilibrio dell'ecosistema.

Il terzo punto cardine intorno al quale ruota la nuova morale economica è una maggiore sensibilità nei confronti dell'uomo e delle sue esigenze fisico-psichiche: una maggiore attenzione alla qualità della vita; più tempo libero a disposizione per coltivare i propri interessi personali, per crescere come persona e naturalmente per dedicarsi alla politica partecipativa. Ed è proprio in ottemperanza di questo terzo aspetto della nuova morale economica, oltre che delle mutate condizioni all'interno del mondo economico, che si è cercato di studiare una nuova organizzazione dei tempi di lavoro. E' necessario - come direbbe Aznar - riuscire ad accettare la realtà che nell'immediato futuro dovremo organizzare il nostro lavoro in base "al nuovo spazio-tempo", in cui gran parte del tempo verrà "liberato dal lavoro" e tornerà a disposizione dell'uomo per realizzare a pieno la sua esistenza; questo non va visto con un'ottica negativa, di disperazione per non aver più la possibilità di lavorare in modo costante l'ungo l'arco di una giornata, ma in modo positivo, cercando di riscoprire "il tempo nuovo" e, grazie ad esso, se stessi. Aznar e Gorz, nei loro studi, hanno dimostrato che un tempo nuovo sta nascendo nel mondo del lavoro e nella società in generale, e questo tempo nuovo risponde perfettamente sia alle esigenze della nuova morale economica, che a quelle del nostro modello di democrazia diretta. Nessuno è in grado di spiegare meglio di Aznar cosa sia questo "tempo nuovo" e cosa lo differenzi dagli altri tempi che gli uomini hanno avuto a loro disposizione nel passato:

"[...] il tempo nuovo è di una natura completamente diversa da quella dei tempi che abbiamo conosciuto finora. Non è più un tempo attribuito dal sistema, è un tempo scelto, autodeterminato da un atto volontario. [...] in cui l'individuo vive secondo i propri desideri. [...]

Il tempo nuovo non è tempo perso, è tempo guadagnato. [...] tempo disponibile per mille e un'attività autodeterminate. [...]

In questo nuovo spazio-tempo, [...] tutte le attività potranno coesistere e altre ancora dovranno essere inventate. [...] il culto dell'ozio o il piacere di un secondo lavoro reinventato. Non sta a noi organizzare il tempo libero. E' già quasi indecente parlarne.

Il tempo nuovo è forse il primo tempo libero della storia dell'umanità. In effetti, i tempi non occupati dal sistema erano sino ad oggi parte integrante di un insieme. Nella società agricola, [...] i tempi non attivi, associati alle festività religiose, erano inclusi nel cerchio della società. Nelle società industriali, [...] il tempo non occupato è programmato e inscritto nel processo di produzione. In entrambi i casi, il tempo libero è tempo marginale, rubato, trasgressivo.

Il tempo nuovo, invece, è un tempo alternativo. Non è più determinato dal sistema, ma da ciascuno; non è più programmato dai riti collettivi, ma da riti individuali; non è più contrappunto di niente, ha un'esistenza sua propria. E' forse la prima volta nella storia dell'umanità che gli uomini avranno tempo per la libertà; è la prima volta che avranno la possibilità di essere veramente liberi del loro tempo."

Grazie a questo nuovo tempo liberato dal lavoro, attraverso la nuova morale dell'economia e il modello di democrazia diretta, l'uomo di questa nuova società ha l'opportunità e il dovere morale di crescere, di sviluppare la propria natura e il proprio vivere in comune in modo più completo di quanto non abbia potuto fare fino ad ora. Il tempo liberato dal lavoro è un'occasione unica che si presenta al genere umano e grazie al quale esso può costruire una società nuova, una nuova politica e una nuova economia; è un'opportunità da non perdere per riscoprire se stessi e realizzare finalmente la personalità umana in modo più completo e creativo.

E' doveroso precisare che l'affermarsi della nuova morale dell'economia non esclude il fatto che si possa, anzi, si debba ricercare ancora la massima efficienza ricavandone un profitto, ma solo stabilendo come precondizione il rispetto per l'uomo, per la natura in cui vive e ponendo al primo posto gli interessi della società e non quelli individuali. Ciò che la nuova morale economica esclude è di considerare la ricerca del massimo profitto come unico e più alto scopo dell'economia, l'economia deve avere come fine il benessere sociale, nel rispetto dell'uomo e dell'ecosistema.

Abbiamo parlato di "nuova morale dell'economia", ma forse avremmo fatto meglio ad eliminare l'ultimo termine della definizione, limitandoci a proporla come "la nuova morale": in effetti essa si estende oltre i confini dell'ambito economico e coinvolge anche molte altre sfere della vita sociale. I princìpi sulla quale si basa sono validi come princìpi morali della vita quotidiana all'interno della nostra nuova società basata sulla democrazia diretta. La nuova morale deve assolutamente affermarsi perchè la società possa realmente cambiare nella direzione del modello di democrazia diretta; e al suo fianco deve esistere anche una nuova cultura del lavoro: una consapevolezza che i tempi sono cambiati, che non è più possibile concepire il lavoro secondo i vecchi schemi del lavoro fisso e della durata di 8 ore al giorno, è necessaria una capacità creativa di adattarsi al nuovo, di viverlo in modo positivo e di approfittare fino in fondo delle grandi, immense, opportunità che offre.

La tabella 9.6 riassume schematicamente i punti fondamentali della nuova morale che dovrà caratterizzare l'agire economico, come pure quello nelle altre sfere della nuova società.

 

Tab. 9.6 La nuova morale dell'economia, nel modello completo di democrazia diretta.

 

La nuova morale dell'economia

1- attenzione al benessere della società nel suo insieme, e non al benessere consumistico-materialista dei singoli individui

2- attenzione e rispetto per l'ambiente naturale e l'ecosistema: deve entrare nella coscienza comune delle persone

3- nuova sensibilità e attenzione nei confronti dell'uomo e delle sue esigenze psico-fisiche:

a- qualità della vita

b- tempo libero per autorealizzazione

c- tempo necessario per politica partecipativa

 

La nuova cultura del lavoro

A- il "nuovo spazio-tempo liberato dal lavoro" (Aznar) e una nuova cultura del lavoro:

a- consapevolezza che non è più possibile concepire il lavoro secondo i vecchi schemi del lavoro fisso e della durata di 8 ore al giorno

b- è necessaria una capacità creativa di adattarsi al nuovo, di viverlo in modo positivo e di approfittare fino in fondo delle opportunità che offre per riscoprire se stessi e realizzare la personalità umana in modo più completo e creativo realizzare la personalità umana in modo più completo e creativo

 

9.1.5 - La politica economica del modello di democrazia diretta

Per quanto concerne la politica economica che dovrà venire applicata all'interno del modello di democrazia diretta è chiaro che la scelta spetterà ai cittadini, a secondo dei loro interessi e delle loro ideologie, e avverrà tramite lo strumento referendario.

Tuttavia non possiamo astenerci dal precisare alcuni aspetti strutturali che a nostro avviso sarebbe doveroso applicare. Si tratta di una serie di questioni che potrebbero anche essere oggetto di dibattito e di referendum, sulle quali riteniamo opportuno esprimere la nostra posizione.

La presenza di un qualche tipo di welfare-state ci sembra difficilmente discutibile, poichè ogni società matura e civile dovrebbe prestare attenzione alle condizioni di vita delle classi più svantaggiate ed operare in modo da favorirne, prima di tutto la sopravvivenza, e in secondo luogo cercando di migliorarne le condizioni. A questo scopo, alcune delle attività da svolgere dovrebbero essere di competenza dello Stato, soprattutto per quei settori di chiaro interesse pubblico, come può essere: la sanità; l'istruzione; i servizi di assistenza; la previdenza; i trasporti pubblici urbani e nazionali; e altri ancora. Affermare che in questi settori deve esistere la presenza dello Stato non equivale a dire che i privati non vi possano prendere parte, ma semplicemente che lo Stato deve preoccuparsi di garantire un servizio accessibile a chi è in condizioni economiche svantaggiate, un servizio che comunque deve avere un alto livello qualitativo e di efficienza. Proprio per rispondere a queste esigenze ricordiamo che sarebbero opportune alcune riforme all'interno della pubblica Amministrazione (vedi paragrafo 8.3) - come pure dei servizi pubblici in generale - nel senso di un ammodernamento strutturale e tecnologico (informatizzazione) al quale si dovrebbe accompagnare una continua riqualificazione del personale.

Sempre per ciò che concerne le varie forme che può assumere la solidarietà sociale all'interno di uno Stato, si potrebbe - come già detto in precedenza - offrire ai disoccupati un sussidio di disoccupazione, non troppo alto per evitare che provochi un calo di stimoli al lavoro; una ulteriore possibilità consiste nel garantire ad ogni cittadino un reddito base (o reddito minimo di sussistenza), anch'esso, comunque, non eccessivamente alto per evitare che egli preferisca rimanere al di fuori del mondo del lavoro. Le due soluzioni sono ovviamente alternative.

Una riforma dell'attuale sistema pensionistico andrebbe realizzata, almeno per quei lavoratori che entrassero fin dall'inizio della loro carriera lavorativa nei meccanismi della nuova organizzazione del lavoro; per chi invece è già inserito da tempo nel mondo del lavoro, rimarrebbero validi i diritti acquisiti. Una riforma del sistema pensionistico pensata sul lungo periodo, in grado di attutire i colpi di questo drastico cambiamento; ricordiamo, infatti, che secondo il nostro modello, a grandi linee, si andrebbe in pensione dopo 30 anni di lavoro a mezzo tempo, e la pensione avrebbe due componenti: un reddito fisso finanziato con la fiscalità generale; e un reddito variabile proporzionale ai contributi versati dal lavoratore nel corso degli anni.

Le forme che deve assumere l'assistenza sociale non sono predeterminate, esistono almeno due possibilità: l'assistenza tramite i servizi sociali; e i trasferimenti alle famiglie. Sebbene si tratti di due modi di agire entrambi legittimi, a noi sembra che le condizioni della società moderna e delle tendenze in atto al suo interno debbano far propendere verso la prima soluzione, cioè l'assistenza attraverso i servizi sociali pubblici.

I trasferimenti alle famiglie, infatti, non sono più adeguati alla realtà e benché ancora possibili, creerebbero delle disfunzioni. Essi sono stati studiati in passato come una alternativa ai servizi sociali pubblici, facendo perno su un modello di nucleo famigliare esteso o comunque tradizionale in cui alla donna era affidato il ruolo di casalinga, un modello che corrisponde sempre meno a quello presente nella realtà. La comparsa di un numero sempre maggiore di nuclei famigliari in cui entrambi i coniugi lavorano, la riduzione del numero dei componenti del nucleo famigliare, fino a giungere all'estremo in cui esso è composto solo dai due coniugi, o addirittura la presenza sempre più diffusa di "single" impone di tenere nel dovuto conto questi cambiamenti. Nel loro insieme, essi impediscono l'applicazione pratica - a meno di creare enormi disagi alle famiglie stesse - per molti dei casi in cui si è spesso pensato di ricorrere ai trasferimenti alle famiglie come potrebbe essere il caso dell'assistenza necessaria a un handicappato.

La scelta verso i trasferimenti alle famiglie, anche nel caso fosse possibile, appare comunque non conveniente sotto il profilo economico. Se da un lato, infatti, può apparire un risparmio per lo Stato, poichè riduce le spese per il mantenimento di una struttura pubblica, dall'altro i costi indiretti di una simile scelta sono molto più alti. I trasferimenti alle famiglie costituiscono comunque una spesa per lo Stato, spesa inutile perchè spesso si rivela inadeguata alle necessità effettive; inoltre, questa scelta comporta l'eliminazione (o la non creazione) di strutture pubbliche che danno lavoro a molte persone qualificate per questi lavori, una conseguenza sarebbe un aumento della disoccupazione a cui lo Stato dovrebbe far fronte attraverso dei sussidi. Quello che lo Stato ha risparmiato evitando di fornire un servizio pubblico, lo perde attraverso una spesa improduttiva come sono gli assegni di sussistenza per i disoccupati, creando inoltre disagi e tensioni all'interno della società.

In considerazione di tutto ciò, appare scontato preferire lo sviluppo di una serie di servizi sociali a gestione pubblica maggiormente adatti alle nuove strutture famigliari (singoli e nuclei famigliari con entrambi i coniugi lavoratori) e più convenienti da un punto di vista sia economico che di efficienza. Ribadiamo che fornendo servizi sociali di carattere pubblico si riesce a ridurre il problema della disoccupazione, diminuendo così i costi improduttivi per lo Stato e riducendo le tensioni sociali. Il costo dei servizi pubblici è comunque un costo produttivo: offre maggiori opportunità di occupazione; fornisce un servizio qualificato; libera in molti casi una notevole quantità di tempo alle famiglie; riduce il peso economico che graverebbe sulle famiglie con i trasferimenti, offrendo quindi ad esse una maggiore possibilità di spesa dovuta ad un aumento del reddito reale, che su larga scala vorrebbe dire maggior consumo, maggiore richiesta di produzione, e quindi un'economia sana.

Altre riforme necessarie anche all'interno delle attuali democrazie rappresentative, e non solo nel nostro modello di democrazia diretta, potrebbero riguardare - stiamo pensando in particolare al caso italiano - la parificazione delle condizioni del lavoro dipendente con quello autonomo (almeno fin dove ciò è possibile); come pure una certa parità di condizioni dovrebbe sussistere tra i dipendenti dei settori privati dell'economia e quelli pubblici. Inoltre, non condividiamo l'utilizzo di un istituto come la Cassa Integrazione Guadagni (CIG), che appare più rivolta a scaricare sullo Stato i costi dei periodi economici difficili, invece di lasciare che essi rimangano a carico delle imprese. La CIG sembra uno strumento non idoneo, soprattutto nel quadro delle riforme economiche previste da tutto il modello della nuova economia. Il suo utilizzo, eventualmente, se persistesse questo strumento, dovrebbe venire limitato ad un arco di tempo assai breve - massimo 6 mesi, ma anche meno - anche se riteniamo che la stessa nuova organizzazione del lavoro sia utile a limitare le dimensioni del problema della disoccupazione, eliminando del tutto quella di lungo periodo. Qualora questo ottimismo si rivelasse non corrispondente alla realtà dei fatti, sarebbero comunque da preferire delle soluzioni alternative alla CIG, come i sussidi di disoccupazione o un eventuale reddito di sopravvivenza garantito a tutti.

Come abbiamo già spiegato, tutte queste proposte di riforma (vedi Tab. 9.7) che riguardano la politica economica da svolgere nel sistema federale di democrazia diretta, dovrebbero comunque ricevere il benestare dei cittadini, magari anche solo attraverso un referendum confermativo.

 

Tab. 9.7 Le politiche economiche preferite per il modello completo di democrazia diretta.

A- presenza di un qualche tipo di welfare-state, in particolare per quanto riguarda alcuni settori:

a- sanità

b- istruzione

c- assistenza

d- previdenza

e- servizi sociali

f- trasporti pubblici locali e nazionali

B- preferenza per i servizi pubblici rispetto ai trasferimenti in denaro alle famiglie:

a- vantaggi economici:

1- i servizi pubblici riducono i costi perchè organizzati su larga scala

2- minore disoccupazione, quindi meno costi improduttivi per lo Stato (per sussidi di disoccupazione) e minori tensioni sociali;

3- maggiore occupazione qualificata;

4- libera le famiglie da molte spese dirette e indirette (mancato guadagno perchè un suo membro deve stare a casa e non lavorare), aumenta la loro capacità di spesa, e questo su larga scala stimola il consumo e l'economia.

b- vantaggi non economici:

1- corrispondono alle esigenze dei nuovi modelli di famiglia (singoli e coniugi che lavorano)

2- fornire alle famiglie un servizio efficiente

3- maggiore disponibilità di tempo per i membri delle famiglie

C- parità di trattamento tra lavoro dipendente e autonomo, ove possibile;

D- parità di trattamento tra dipendenti pubblici e privati;

E- no alla cassa integrazione guadagni (CIG), o comunque limitata nel tempo (massimo 6 mesi), le alternative sono:

a- i sussidi di disoccupazione o un eventuale reddito di sopravvivenza garantito a tutti;

b- la stessa nuova organizzazione del lavoro, che consente di rimanere in modo costante in una situazione prossima alla piena occupazione

F- maggiore efficienza nei servizi pubblici:

a- informatizzazione

b- personale qualificato

 

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