Luca Gandolfi

Dottore in Scienze Politiche

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Capitolo 7
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IL MODELLO DI DEMOCRAZIA DIRETTA:

LE ORGANIZZAZIONI

 

Sino ad ora sono stati esaminati degli elementi introduttivi alla democrazia in generale e alla democrazia diretta in particolare. Si sono analizzati i casi storici più noti in cui si è realizzata la democrazia diretta, i legami intellettuali e ideologici di questa con altre correnti di pensiero, e alcune delle proposte già presenti in letteratura su possibili modelli di democrazia diretta. E' stato inoltre condotto un confronto col modello rappresentativo che, seppure legittimo e tuttora attuato in gran parte del mondo, ha mostrato ormai tutte le sue lacune e i suoi problemi endemici a cui la democrazia diretta sembra in grado di offrire una soluzione.

Ora si tratta di rielaborare tutto il materiale fino ad ora utilizzato e, attraverso un lavoro intellettuale creativo, cercare di costruire un modello completo di democrazia diretta in grado di sostituire le democrazie rappresentative oggi esistenti. Prima di dare inizio a un compito così ambizioso è però necessario spiegare cosa si intenda col termine "completo": esso vuole semplicemente dire che non ci si limiterà ad esaminare l'aspetto istituzionale e strutturale del modello di democrazia diretta, ma si cercherà di analizzare a fondo come le modifiche apportate in quegli ambiti debbano necessariamente richiedere, e allo stesso tempo provocano, dei mutamenti anche in molti, se non addirittura in tutti, gli altri settori che compongono le moderne società complesse. Alle innovazioni nel tipo e nel ruolo dei partiti e dei sindacati, alla nuova struttura e organizzazione dello Stato, è necessario affiancare una nuova economia; nuove legislazioni per gli attuali massmedia e un utilizzo sempre più diffuso delle nuove tecnologie di telecomunicazione interattiva così preziose per la democrazia diretta; un nuovo modo di gestire il momento cruciale di ogni democrazia, cioè il voto dei cittadini; una particolare attenzione deve anche venire rivolta all'educazione delle masse, affinché assimilino fino in fondo i valori della democrazia e li rispettino. Infine ci porremo il problema di quali resistenze potrebbero emergere nel momento in cui si tentasse di attuare questo modello, individuando gli attori e le loro probabili strategie d'azione; e di quali risposte a queste resistenze possono essere considerate più idonee per giungere alla realizzazione del modello di democrazia diretta.

Inizieremo occupandoci dei partiti politici, dei loro problemi, dell'opportunità di mutare la loro organizzazione interna e ponendoci la questione se sono effettivamente ancora necessari e indispensabili in uno Stato gestito attraverso l'uso intensivo degli strumenti della democrazia diretta; lo stesso tipo di riflessioni saranno condotte riguardo ai sindacati a cui verrà data una nuova organizzazione interna.

Passeremo poi ad analizzare altre organizzazioni, ciò che sono state all'interno delle democrazie rappresentative e ciò che potranno diventare nella nuova struttura della democrazia diretta; rifletteremo sul loro ruolo e sul tipo di azione politica che permetteranno di attuare.

L'analisi di tutte queste organizzazioni è il primo passo da compiere per iniziare la costruzione del nostro modello di democrazia diretta che si propone l'ambizioso compito di essere completo, di prendere cioè in considerazione tutti gli aspetti che compongono la vita, politica e non-politica, all'interno di una moderna società complessa.

 

7.1 - I partiti politici

I partiti politici sono apparsi sulla scena politica solo nel '700, e nella forma moderna appena nel secolo scorso. Essi sono stati sino ad ora i protagonisti della lotta politica democratica. La competizione tra una pluralità di partiti ha caratterizzato la vita politica delle democrazie rappresentative. In esse il semplice diritto di voto non si è rivelato sufficiente e si è resa necessaria la creazione di una forma organizzativa, il partito appunto, che permettesse una più continua partecipazione dei cittadini alle scelte della comunità mediante una attività sistematica di indirizzo politico.

a- Origine dei partiti:

All'interno di una disciplina come la scienza della politica sono state formulate diverse teorie sull'origine dei partiti, ciascuna delle quali mette in evidenza variabili di diversa natura, ma che possono essere tra esse complementari. Seguendo una prospettiva storica-conflittuale l'accento viene posto sulla formazione di divisioni socio-strutturali fondamentali relative ai processi di formazione dello Stato e di sviluppo industriale. Altri preferiscono dare rilevanza a variabili di tipo istituzionale, prime fra tutte l'estensione del suffragio che allarga il mercato elettorale e lo sviluppo delle istituzioni democratico-rappresentative, in particolare i parlamenti. Appare comunque già evidente lo stretto legame che esiste tra i partiti e la forma rappresentativa della democrazia.

b- Tipologie e classificazioni dei partiti:

Il mondo accademico ha costruito una notevole varietà di tipologie dei partiti politici (vedi Tab. 7.1): dalla distinzione fatta da Hume nel 1724 tra partiti di interesse e partiti di principio; alle analisi di Ostrogorski del 1902 sui partiti-macchina elettorale e a quelle di Michels del 1911 sui partiti di massa classisti; alla classificazione operata da Weber pochi anni più tardi tra partiti di patronato, partiti di classe e partiti ideologici e quella elaborata successivamente dallo stesso studioso tra partiti di notabili e partiti di massa. Ad anni più recenti appartengono la classificazione fatta da Neumann (1956) in cui si distingue tra partiti di rappresentanza individuale e partiti di integrazione (1-democratica o 2-totalitaria); e quelle operate da Duverger tra partiti di origine interna ed esterna, partiti di quadri e partiti di massa, e all'interno di quest'ultimo tra partiti a struttura diretta e indiretta. Negli anni '70 Almond ha creato una tipologia in cui c'erano i partiti a contrattazione pragmatica e i partiti ideologici, aggiungendo in seguito i partiti particolaristici-tradizionali. Originale l'idea di Kirchheimer sui cosiddetti partiti pigliatutto, caratterizzati da una drastica riduzione del bagaglio ideologico a favore di issues e di tattiche volte al breve periodo, da un rafforzamento dei gruppi dirigenti centrali, da una riduzione del ruolo degli iscritti e dal declino della militanza di base, da un appello interclassista e, infine, da una maggiore apertura del partito all'influenza dei gruppi di interesse.

 

Tab. 7.1 Alcune tipologie sui partiti presenti in letteratura.

Autore

Tipologie e classificazioni

Hume:

a- partiti di interesse

b- partiti di principio

Ostrogorski:

a- partiti-macchina elettorale

Michels:

a- partiti di massa classisti

Weber:

a- partiti di patronato

b- partiti di classe

c- partiti ideologici

a- partiti di notabili

b- partiti di massa

Neumann:

a- partiti di rappresentanza individuale

b- partiti di integrazione

1- democratica

2- totalitaria

Duverger:

a- partiti di origine interna

b- partiti di origine esterna

a- partiti di quadri

b- partiti di massa

1- a struttura diretta

2- a struttura indiretta

Almond:

a- partiti a contrattazione pragmatica

b- partiti ideologici

c- partiti particolaristici-tradizionali

Kirchheimer:

a- partiti di massa

b- partiti pigliatutto

 

Le tipologie non finiscono certo qui, ma per i nostri scopi sono più che sufficienti quelle presentate fino ad ora, utili a far capire come i partiti possano differire profondamente l'uno dall'altro per dimensioni, struttura interna, valori, ruolo degli iscritti e dei militanti, e molti altri fattori ancora.

c- Ruolo e funzioni dei partiti:

Un discorso a parte va condotto sul ruolo dei partiti all'interno delle società in cui operano. Essi, come noto, svolgono una gran quantità di attività e hanno numerose funzioni a cui adempiere. Probabilmente il ruolo più importante ad essi attribuito è quello della strutturazione del voto. Le elezioni e le campagne elettorali nelle democrazie rappresentative sono sotto il loro controllo quasi esclusivo, con la conseguente scomparsa dei cosiddetti candidati indipendenti. Del resto i partiti hanno anche ottenuto un riconoscimento formale da molte Costituzioni, come quella italiana, mutando la tradizione precedente che li considerava unicamente alla stregua di associazioni private non disciplinate costituzionalmente. I partiti sono quindi divenuti, anche formalmente, gli attori principali della strutturazione del voto e dell'espressione della volontà popolare.

Una seconda importante funzione che molti studiosi riconoscono ai partiti è quella di integrazione-mobilitazione-partecipazione. Ma proprio affrontando il dibattito su questo aspetto, negli anni '60 si sono contestate queste funzioni, affermando che la natura oligarchica e burocratizzata di molti partiti non offriva un effettivo canale di partecipazione, rimasto prerogativa solo dei movimenti e dei gruppi politici più piccoli, maggiormente idonei a soddisfare le esigenze di partecipazione.

Una terza funzione attribuita ai partiti è quella del reclutamento del personale politico. A questo proposito occorre distinguere tra personale parlamentare-rappresentativo, per il quale i partiti detengono il monopolio della funzione; e il personale governativo, in cui non tutti i ministri sono espressione dei partiti.

Un'altra funzione che i partiti detengono è l'aggregazione degli interessi e delle domande che emergono dalla società in politiche e programmi. La teoria della democrazia rappresentativa ritiene che i partiti siano l'istituzione che meglio di ogni altra è in grado di svolgere questo compito, sia per la loro natura espansiva, sia per la loro dipendenza dalla competizione elettorale, che dovrebbero garantire la massima sensibilità nei confronti delle domande e delle esigenze dei cittadini. Ma come spesso accade, la teoria si scontra con la realtà dei fatti, mostrando come altri interessi, non sempre leciti, prevalgano nella strutturazione dell'agenda di ogni partito (vedi 7.1.1 - I problemi dei partiti).

Infine, un'ulteriore funzione dei partiti è quella del policy-making, la formazione delle politiche pubbliche, in cui molto dipende anche dalla forma di governo e dal sistema istituzionale. La tabella 7.2 riassume in modo chiaro le funzioni dei partiti nelle democrazie rappresentative.

 

Tab. 7.2 Le funzioni dei partiti politici nelle democrazie rappresentative.

Le funzioni dei partiti politici:

a- Strutturazione del voto

b- Integrazione-mobilitazione-partecipazione

c- Reclutamento del personale politico

d- Aggregazione degli interessi e delle domande

e- Policy-making (o formazione delle politiche pubbliche)

 

Fino ad ora abbiamo analizzato, seppur in modo approssimativo, le origini, le tipologie e le funzioni dei partiti nelle democrazie rappresentative, anche se siamo rimasti più a un livello astratto che descrittivo della prassi. La realtà infatti evidenzia molte divergenze con gli intenti positivi auspicati dalla teoria democratica, ed è proprio da esse che nascono i principali problemi per i partiti politici, soprattutto in prospettiva dell'introduzione degli strumenti della democrazia diretta e di un modello completo basato su di essa.

7.1.1 - I problemi dei partiti

I problemi che riguardano i partiti sono di tipo assai vario, alcuni più teorici, altri più legati alla prassi democratica. Appartiene al primo tipo la questione assai dibattuta se far prevalere la volontà del cosiddetto partito parlamentare degli eletti o quella del partito organizzazione degli iscritti, oppure del partito dei cittadini-elettori. Da un lato si vorrebbe che il personale politico, una volta eletto, avesse una certa libertà d'azione in virtù delle loro esigenze politico-istituzionali. Dall'altra parte ci si rammenta che i parlamentari devono il loro mandato agli elettori e non agli iscritti al partito, pertanto sarebbe assurdo che ogni decisione da prendere venisse rimandata al partito. Il dibattito è tuttora aperto e alle due posizioni a riguardo corrispondono due diversi modelli di responsabilità politica e di democrazia: il modello della democrazia partitica implica che i leaders e gli eletti debbano essere responsabili di fronte agli organi del partito ed agli iscritti, poiché, di fatto, è a loro che devono la candidatura e la successiva elezione nelle fila di un partito, questa visione bene si lega con la teoria liberale della democrazia rappresentativa secondo cui l'essenza della politica è proprio nell'interazione competitiva tra i diversi partiti e non nei loro processi partecipativi interni; dall'altra parte invece abbiamo la visione roussoniana assolutamente ostile verso ogni forma di intermediazione della volontà politica dei cittadini-elettori, che auspica un legame più stretto e vincolante tra la volontà dei cittadini-elettori e il partito stesso in virtù di una richiesta di maggiore partecipazione alle attività politiche; è evidente come questa seconda posizione si avvicini di più alla teoria della democrazia diretta.

Del resto la questione è aperta anche a livello di interpretazione della legge costituzionale italiana, poichè l'articolo 49 Cost. afferma che la finalità dei partiti è di consentire ai cittadini di "concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale". Anche in questa prospettiva la questione è se il "metodo democratico" vada riferito all'organizzazione interna dei partiti o se debba limitarsi all'attività esterna del partito. Sebbene a livello teorico si propenda per la prima interpretazione, la prassi ha evidenziato notevoli problemi per l'applicazione di tale principio che limiterebbe seriamente l'autonomia dei partiti.

La prassi democratico-rappresentativa ha portato alla luce altri problemi per i partiti politici. La competizione politica condotta attraverso il sistema dei partiti ha trasformato la lotta politica, comportando una sempre maggiore separazione tra eletti ed elettori, vertice e base dei partiti. I partiti politici sono divenuti, nel corso del tempo, i primi attori ponendosi al centro della scena politica. La stessa logica degli apparati di partito ha sempre più ridotto l'elettore a un consumatore passivo della politica, limitando le alternative possibili e favorendo una piccola élite all'interno dei professionisti della politica che esercita il controllo sul partito e sui rappresentanti. E' da questa prospettiva analitica che trae spunto Michels per la sua nota "legge di ferro dell'oligarchia", secondo la quale:

"di tanto una organizzazione diventa più organizzata, di altrettanto diventa sempre meno democratica: l'organizzazione snatura la democrazia e la trasforma in oligarchia."

"Chi dice organizzazione dice tendenza all'oligarchia [...] Il meccanismo dell'organizzazione [...] inverte completamente la posizione del condottiero rispetto alla massa. L'organizzazione determina la divisione di ogni partito [...] in una minoranza che dirige e in una maggioranza che è diretta [...] Ovunque l'organizzazione è più forte si constata un minor grado di democrazia applicata."

"L'esistenza di capi è un fenomeno congenito a qualunque forma di vita sociale. Non incombe alla scienza investigare se esso sia un male o un bene [...] Ha, però, gran valore sia scientifico che pratico lo stabilire che ogni sistema di capi è incompatibile con i postulati più essenziali della democrazia."

La legge di Michels mostra una tendenza che raramente ha avuto possibilità di venire smentita dall'esperienza democratica rappresentativa basata sul sistema dei partiti. Lo stesso Sartori è d'accordo con la teoria espressa da Michels, e sul problema che l'organizzazione interna dei partiti spesso si allontana dai principi democratici. Tuttavia Sartori dissente dalle conclusioni tratte da Michels sostenendo che dire "i partiti non sono democratici" non comporta necessariamente che la democrazia rappresentativa basata su di essi non sia democratica.

"Il punto è che la democrazia in grande, di insieme, non è una somma statica delle organizzazioni che la compongono; è, invece, il prodotto (dinamico) delle loro interazioni. Michels cercava la democrazia dentro le singole organizzazioni. Ma perchè lì? Non si organizza per creare un organismo democratico; si organizza, in primo luogo per creare un organismo ordinato ed efficiente. [...] Invece di guardare all'interno di ciascuna organizzazione, osserviamo i rapporti tra le singole organizzazioni in concorrenza. [...] Per quanto ciascuna minoranza possa essere organizzata al suo interno in maniera oligarchica, anche così il risultato del loro incontro competitivo è una democrazia [...]"

L'argomentazione sembra avere una sua logica, ma ad una analisi più attenta mostra i suoi punti deboli, sia a livello teorico che empirico. A livello teorico occorre dire che se è vero che "si organizza, in primo luogo per creare un organismo ordinato ed efficiente", è altrettanto vero che in un sistema democratico basato sulla rappresentanza questo non può essere l'unico criterio in base al quale strutturare un partito, anche se inserito in un sistema competitivo. Se così fosse, i partiti, anche se ordinati ed efficienti, non necessariamente riuscirebbero a rappresentare la volontà dell'elettorato, l'unica cosa che potrebbero fare sarebbe di ottenere la legittimazione formale a governare. Questa è la risposta alla domanda "perchè lì?". E' questa la ragione per cui è necessario che vi sia una democrazia anche all'interno delle singole organizzazioni, i partiti, che sono alla base della struttura democratica rappresentativa.

Certo, in teoria sarebbe possibile, al limite, concepire che una struttura oligarchica riuscisse ugualmente a rappresentare la volontà dei suoi elettori, ma sarebbe sempre presente il rischio che questa élite non si accontentasse di essere ricettiva degli input che provengono dalla società civile, ma anzi cercasse di guidare e condizionare la massa dei suoi elettori verso la direzione desiderata. L'esperienza empirica ha mostrato, inoltre, i forti legami tra i partiti e i gruppi di interesse - e questo è un ulteriore problema per i partiti politici - che certamente risultano facilitati da una struttura partitica in cui è una élite a detenere il controllo.

I due problemi, - quello delle tendenze oligarchiche interne ai partiti da cui deriva anche una perdita di contatto con la base, e quello delle interferenze dei gruppi di interesse - seppure analiticamente distinti, risultano avere dei legami molto stretti nella prassi. Proprio per questa ragione non si può ignorare la "legge di ferro dell'oligarchia" di Michels, anzi è necessario prestarvi la massima attenzione per capire fino in fondo tutte le conseguenza che questa tendenza comporta.

La conseguenza più evidente è sicuramente la perdita di contatto con la base, sia interna al partito (gli iscritti) che quella elettorale (i cittadini-elettori). In questo modo la tendenza verso l'oligarchia interna ai partiti sembra risolvere a livello pratico la questione emersa inizialmente a livello teorico su quale volontà debba prevalere nelle decisioni prese dal partito: quella di una ristretta cerchia degli eletti. Il problema è che una simile risposta si scontra in modo frontale con i principi democratici. Se i partiti perdono il contatto con la base (gli iscritti e gli elettori) e nella prassi seguono la volontà di una élite politica (i leaders e i dirigenti di partito) e/o economica (i gruppi di interesse), la funzione democratica della rappresentanza politica viene privata di ogni significato e tradita nella sua essenza. La democrazia rappresentativa viene tradita e, sebbene legittima in teoria, nella prassi si mostra come un utile strumento nelle mani di una élite di potenti che la sfruttano come facciata da porre di fronte all'opinione pubblica per coprire le loro operazioni prive di qualsiasi legittimità democratica.

E' questo che avviene quando i gruppi di interesse riescono a condizionare in modo sempre più pregnante la politica dei partiti. E' questo che è avvenuto nella "tangentopoli" italiana: una "democrazia" parallela e sommersa - se così la vogliamo chiamare - è venuta alla luce, era la "democrazia" dei grandi gruppi economici e finanziari che hanno determinato l'andamento della politica italiana degli ultimi cinquant'anni, scavalcando quella che era stata la volontà espressa tramite il voto dagli elettori. Questa si è dimostrata essere la democrazia reale, una "democrazia" in cui la corruzione e i rapporti clientelari si sono espansi a macchia d'olio, dove i gruppi di interesse, pur di ottenere quello che volevano, non hanno guardato al colore politico dei partiti. I partiti strumenti di rappresentanza politica? Si, questa era la teoria, questa era la speranza di chi ha ideato il sistema democratico rappresentativo. Ma la prassi ha evidenziato una realtà ben diversa, una realtà tutt'altro che democratica, una realtà che troppo spesso ha mostrato di non tenere in considerazione la volontà dei cittadini e di accondiscendere più volentieri ai desideri di gruppi di interesse e di potere senza alcuna legittimazione democratica.

Su un piano analitico è abbastanza semplice distinguere tra partiti politici e gruppi di interesse: ai primi spetta il compito di aggregare le domande politiche che provengono dalla società civile; ai secondi compete l'articolazione delle domande politiche; i partiti si confrontano nell'arena elettorale e lottano per conquistare il potere ed esercitarlo in prima persona attraverso le maggioranze parlamentari e il governo; i gruppi di interesse, invece, non cercano di conquistare il potere visibile, ma vogliono condizionarlo per ricavare i vantaggi desiderati utilizzando tutti i mezzi a loro disposizione.

Nella prassi è invece moto difficile riuscire a capire dove finisce l'uno e dove inizia l'altro, essi sono talmente intrecciati da divenire spesso indistinguibili e questo costituisce un problema assai grave per una organizzazione come il partito politico che dovrebbe essere lo strumento che consente ai cittadini di "concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale" (art.49 Cost. It.).

La prassi delle democrazie rappresentative europee ha mostrato altri problemi che coinvolgono i partiti politici. In alcuni casi si è avuto un mutamento di posizione politica dei partiti che hanno vinto le elezioni, uno spostamento verso politiche tipiche di altre aree ideologiche, un tradimento nei confronti del programma presentato in sede elettorale e dei cittadini che l'avevano votato. Alcuni esempi possono essere rappresentati dal cosiddetto "rigore socialista" dei governi di Francia e Spagna degli anni '80. Il PS e il PSOE si sono allineati alle priorità anti-inflazionistiche tipiche dei governi di destra, con l'aggiunta di politiche dei redditi e fiscali assai severe che hanno imposto enormi sacrifici ai lavoratori e provocato fenomeni di disoccupazione di massa. Al riguardo il mondo accademico si divide tra chi ritiene che si sia trattato di una scelta e chi invece lo giustifica ritenendo fosse una necessità.

Al di là del giudizio sui casi specifici è importante sottolineare due aspetti importanti di quanto è avvenuto: da un lato il fatto che c'è stato un mutamento di area politica di un partito al governo e una modifica sostanziale di quello che era il suo programma elettorale nel momento della sua applicazione, tradendo così il suo elettorato; dall'altro il come ciò sia potuto accadere, e questo ci riporta al discorso sviluppato in precedenza riguardo alla tendenza oligarchica delle organizzazioni-partito in cui è una élite ristretta di esso che prende le decisioni, escludendo da esse sia gli iscritti che i cittadini-elettori, tradendo in questo modo l'essenza stessa della democrazia rappresentativa.

Infine, un ulteriore problema che attanaglia molti partiti è quello delle correnti interne e delle fazioni, anch'esso legato ai processi decisionali interni ai partiti. Queste divisioni interne ai partiti portano a conflitti di interessi che condizionano sia il partito che il sistema politico nel suo insieme e ai vari livelli. Le correnti interne possono essere in lotta tra loro per la conquista delle posizioni di maggior prestigio e potere all'interno del partito, in questo modo possono anche influenzare ed eventualmente modificare la percezione del partito da parte dell'elettorato. Mutamenti nelle gerarchie interne a un partito, dovuti al prevalere di una corrente su un'altra, può anche essere all'origine di rotture di coalizioni di governo con altri partiti.

La maggior parte degli studiosi ritiene comunque che il fazionismo e le correnti non siano alla base della vita del partito, o almeno non dovrebbero esserlo. Anzi, esse sono percepite come una degenerazione patologica e disfunzionale sia per i partiti che per il sistema politico. Il mondo accademico ha provveduto anche a distinguere tra i diversi tipi di correnti e fazioni creando delle classificazioni. La distinzione principale, universalmente riconosciuta, è quella tra fazioni di potere e fazioni ideologiche: le prime sono caratterizzate da finalità di potere per i loro leaders e per l'inserimento dei loro seguaci nei principali uffici; le seconde, quelle ideologiche, sono maggiormente legate a una particolare visione del mondo e a teorie generali dello sviluppo sociale, al loro interno è sempre vivo il dibattito intellettuale sui fini ultimi e sui mezzi e le strategie migliori per raggiungerli. Questo secondo tipo di fazionismo, secondo alcuni, può anche paralizzare il partito, ridurne la capacità di mobilitazione politico-elettorale, oltre a indebolirne la leadership interna; tuttavia, secondo altri, è anche una garanzia di democrazia interna al partito e può condurre a una effettiva partecipazione tramite i dibattiti interni. Il fazionismo di potere, invece, oltre a diminuire la capacità di coordinamento del partito come attore unitario, minando la stabilità della leadership interna e a deteriorare l'immagine del partito presso gli elettori, spesso degenera in fenomeni di corruzione e di rapporti clientelari con alcuni gruppi di interesse.

Certamente il problema della corruzione e dei legami con i gruppi di interesse non è da ricondurre unicamente alle correnti interne ai partiti e al fazionismo; anzi la causa principale sembrerebbe essere legata al problema del finanziamento delle costose attività del partito e all'insufficienza dei contributi pubblici. Le costose macchine-partito si rivolgono quindi, per sopravvivere, a forme di finanziamento al limite del lecito o decisamente illecite come le gestioni fuori bilancio, gli enti pubblici, i governi stranieri, i grandi gruppi industriali e finanziari, e altro ancora. Come abbiamo già chiarito altrove, tutto ciò condiziona pesantemente l'azione politica dei partiti e la vita democratica stessa, portando spesso al tradimento degli ideali che la democrazia rappresentativa intendeva difendere e attuare.

La tabella 7.3 riassume schematicamente i principali problemi che i partiti hanno evidenziato nel corso degli anni della loro vita all'interno delle democrazie rappresentative.

 

Tab. 7.3 I problemi dei partiti politici nelle democrazie rappresentative

I problemi dei partiti politici

1- Il partito è degli eletti, degli iscritti o dei cittadini-elettori?

2- Tendenze elitarie e oligarchiche nella struttura interna dei partiti ("legge di ferro dell'oligarchia", Michels).

3- Perdita di contatto con la base.

4- Interferenza e, in alcuni casi, controllo dei gruppi di interesse sulla politica svolta dai partiti. Quindi "democrazia rappresentativa tradita".

5- Corruzione e clientelismo.

6- Mutamenti di posizione e di politica dei partiti.

7- Correnti interne e fazioni.

8- Problema del finanziamento pubblico dei partiti.

9- Dubbia esistenza della democraticità effettiva nella prassi delle democrazie rappresentative.

 

Rimane ora da chiarire se questi problemi sono dovuti alla forma partito e alla sua attuale organizzazione interna o se invece siano riconducibili alle strutture istituzionali della democrazia rappresentativa. La risposta non può certo essere unica, ciascun problema ha diverse cause, ma sembra comunque evidente che in prospettiva di un modello completo di democrazia diretta sia necessario rivedere la struttura interna, come pure alcune idee-guida dei partiti. In seguito valuteremo se il partito sia una organizzazione ancora utile e da inserire in un modello ideato sulla democrazia diretta.

7.1.2 - I partiti partecipativi

Da quanto è stato detto fin qui appare chiaro che i partiti politici necessitano di una ristrutturazione interna che parta dall'assunto che ogni partito è, e deve essere, il partito dei cittadini-elettori che lo votano, o quanto meno degli iscritti. In quanto tale esso deve sempre essere in grado di rispecchiare la loro volontà, o quanto meno quella dei più attivi tra loro, coloro che sono stimolati a una maggiore partecipazione alla vita politica del partito. A questi il partito deve permettere di esprimere le valutazioni sulle questioni fondamentali che si presentano all'attenzione del partito.

In pratica si tratta del "partito partecipativo" desiderato da Macpherson, il quale auspicava un sistema politico che unisse la competizione partitica alle organizzazioni della democrazia diretta. Il sistema interno al partito - secondo Macpherson - avrebbe dovuto essere riorganizzato secondo principi meno gerarchici ed elitari, facendo in modo che gli amministratori politici fossero maggiormente responsabili di fronte ai membri delle organizzazioni che rappresentavano. Tuttavia il suo progetto di partito partecipativo rimane di carattere abbastanza vago, limitandosi a impostare una questione di principio.

Apparirebbe impossibile ipotizzare un partito che chiede in continuazione ai suoi elettori o ai suoi iscritti di riunirsi e votare per decidere anche solo sulle questioni principali, ma questo solo se il sistema di voto rimanesse quello tradizionale tuttora in uso. Se invece si introducessero le moderne tecnologie di tele-voto e di video-comunicazione interattiva il partito partecipativo potrebbe effettivamente essere realizzabile. Ai cittadini o agli iscritti ad un partito diverrebbe possibile comunicare quasi istantaneamente la loro opinione sulle posizioni che il partito deve prendere sulle questioni politiche che si trova a dover affrontare; i leaders di partito e i parlamentari verrebbero immediatamente a conoscenza della volontà di chi li ha votati potendo in questo modo assumere a tutti gli effetti la qualifica di rappresentanti (vedi Tab. 7.4).

 

Tab. 7.4 Struttura della rappresentanza attraverso il partito partecipativo nelle democrazie rappresentative.

 

ATTUAZIONE

é

DECISIONI

é

VOTAZIONE PARLAMENTARE

é

DISCUSSIONE PARLAMENTARE

tra i partiti partecipativi

é

RAPPRESENTANZA DELLE OPINIONI

da parte del partito partecipativo nelle sedi istituzionali

é

Ogni partito partecipativo viene a conoscenza

dell'OPINIONE DELLA MAGGIORANZA dei suoi RAPPRESENTATI

sulle questioni presenti nell'agenda politica

é

SISTEMA DI TELE-VOTO

tramite l'impiego delle nuove tecnologie di video-comunicazione interattiva

utilizzato all'interno di ogni partito partecipativo

é

ISCRITTI o CITTADINI-ELETTORI di un partito

 

In questa sua nuova veste il partito, e quindi il sistema partitico nel suo complesso, potrebbe finalmente divenire lo strumento tanto auspicato che consentirebbe ai cittadini di "concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale" (art.49 Cost. It.). In questa loro forma partecipativa i partiti potrebbero finalmente realizzare a pieno il "metodo democratico" nella loro struttura interna e rappresentare effettivamente la volontà dei cittadini ponendosi così come un reale strumento in loro possesso per "determinare la politica nazionale".

Non si può fare a meno di notare come le eventuali modifiche della struttura interna ai partiti in senso partecipativo consentirebbe di risolvere alcuni dei problemi che sono emersi nella prassi che li riguarda nelle democrazie rappresentative. Oltre a dare un risposta alla questione eternamente dibattuta su chi debba prevalere all'interno di un partito - gli eletti, gli iscritti o i cittadini-elettori - propendendo per una delle ultime due alternative; l'introduzione di una struttura partitica maggiormente partecipativa eviterebbe, almeno in parte, l'inconveniente delle tendenze elitarie e oligarchiche messe in evidenza dalla "legge di ferro dell'oligarchia" di Michels e comporterebbe inoltre un recupero del contatto tra la base e i vertici del partito. Una partecipazione costante della base di ogni partito risulterebbe essere anche un'ottima garanzia per evitare le interferenze nel decision-making dei gruppi di interesse, poichè vi sarebbe maggiore chiarezza su quella che è la volontà dei cittadini che votano per un partito. Tutto ciò potrebbe comportare, come logica conseguenza, la riduzione dei fenomeni di corruzione e di clientelismo che necessitano della possibilità di agire nell'ombra, ombra che è impossibile avere quando le decisioni vengono prese dalla base alla luce del sole.

Risulterebbe altrettanto impossibile per i partiti fare dei voltafaccia in sede di attuazione dei programmi elettorali, a meno che non vi sia un cambiamento effettivo dell'opinione dei cittadini a riguardo.

Probabilmente il fazionismo e le correnti interne continuerebbero ad esistere, ma muterebbero forma, divenendo una vera e propria fonte di dibattito aperto e democratico all'interno di ciascun partito, acquisendo in questo modo connotazioni e caratteristiche prevalentemente positive. Certo dovrebbero prevalere le fazioni ideologiche perchè ciò accada, e non certamente quelle di potere, ma prevedere una simile evoluzione è impossibile per chiunque, anche se desiderabile.

Tutto ciò che è stato detto fino ad ora attende solo la verifica empirica di una prassi che per ora non esiste e rimane solo una teoria sulla carta. In ogni caso è giusto segnalare che l'introduzione di un simile partito partecipativo migliorerebbe la qualità delle democrazie rappresentative che potrebbero finalmente sperare di realizzare gli scopi che i suoi teorici si erano prefissati. Sarebbe un ulteriore passo nella direzione di un sistema politico basato sulla democrazia diretta, anche se si tratterebbe probabilmente solo di una fase di transizione.

7.1.3 - I partiti servono?

I partiti servono? Sono necessari? Queste sono domande fondamentali, ma vanno ulteriormente specificate. Quando servono? In quale tipo di democrazia sono necessari? Sono ancora necessari in un sistema politico costruito sulla base di un modello completamente strutturato sulla democrazia diretta?

L'utilità e la necessità di una istituzione politica come i partiti è indiscutibile all'interno di una struttura democratica basata sulla rappresentanza, o quantomeno potrebbe essere considerato un ottimo strumento per attuare i principi e gli scopi che un simile sistema di governo si propone. Certo occorrerebbero delle modifiche profonde nella struttura interna dei partiti odierni, ma questi hanno già dimostrato più volte nel corso della storia una notevole capacità di adattamento ai problemi che gli si sono presentati davanti.

Nelle democrazie rappresentative i partiti politici hanno evidenziato una grande competenza e abilità nello svolgere l'importante funzione di stabilizzazione politica, nel modellare e organizzare l'opinione pubblica attraverso legami ideologici e organizzativi che in parte gli hanno consentito di passare attraverso profondi mutamenti sociali, economici, tecnologici e culturali. D'altro canto, in parte essi sono rimasti legati alle divisioni fondamentali presenti nella società al momento della loro nascita, e in parte hanno contribuito a farle durare nel tempo. In ogni caso, fino ad ora, essi si sono sempre dimostrati pronti a rispondere alle nuove esigenze e ai nuovi conflitti che sorgevano nel corso del tempo all'interno della società civile.

Insomma, nonostante tutti i loro difetti e problemi evidenziati in precedenza (vedi 7.1.2), i partiti politici sono riusciti a sopravvivere nel corso dei decenni, e grazie alla loro capacità di adattamento siamo convinti che potrebbero vivere ancora a lungo, almeno fino a quando continuerà ad esistere la democrazia rappresentativa.

Possiamo quindi iniziare a dare alcune risposte alle domande poste in precedenza: si, i partiti servono; si, sono necessari, o almeno di grande utilità nei regimi democratici basati sulla rappresentanza. Ma sono ancora utili in un sistema politico costruito sulla base di un modello completamente strutturato sulla democrazia diretta? E' questa la questione più importante che dobbiamo affrontare. Anche ammesso che i partiti assumessero una struttura interna improntata su una maggiore partecipazione dei loro iscritti o elettori, una volta che fosse messo in atto un sistema interamente strutturato sulla democrazia diretta, quale senso avrebbe la loro permanenza. Sicuramente essi avrebbero la capacità di adattarsi a un nuovo stato di cose. Sono già nati nuovi partiti che hanno legato in modo vincolante la loro immagine a delle single-issues, adeguandosi così in qualche modo alle nuove esigenze di partecipazione e al crescente rifiuto emerso in alcuni paesi, tra cui l'Italia, verso la classe politica e il sistema partitocratico esistente. Ma quale ragione avrebbero i partiti politici, a parte eventuali interessi economici, per continuare ad esistere in una democrazia diretta?

In precedenza abbiamo parlato di una struttura partecipativa interna ai partiti, attuata attraverso l'utilizzo delle nuove tecnologie della telecomunicazione interattiva e dei sistemi di tele-voto. Sembra, tuttavia, abbastanza chiaro ed evidente che un simile partito partecipativo avrebbe senso solo all'interno di un sistema politico democratico fondato sulla rappresentanza. In quel caso consentirebbe, come dicevamo in precedenza, un recupero della base, una maggiore vicinanza tra i partiti e i loro elettori, un rapporto rappresentante-rappresentato più stretto e quindi anche più legittimo. In questo modo la rappresentanza acquisterebbe nuovo valore e nuovo significato, si adeguerebbe ai tempi e recupererebbe terreno sui problemi creati dalle maggiori dimensioni degli stati moderni e dalla distanza che si è andata creando e aumentando tra i cittadini e i loro rappresentanti. La creazione di un sistema di partiti partecipativi è utile all'interno delle democrazie rappresentative, creerebbe un perfetto connubio tra la democrazia diretta e quella rappresentativa, un sistema misto che potrebbe costituire un importante fase di transizione verso il raggiungimento di un sistema completamente basato sulla democrazia diretta.

I partiti politici, anche se partecipativi, hanno senso solo fino a che rimane in vita la democrazia rappresentativa con tutte o anche solo alcune delle sue istituzioni; ma nel momento in cui questa cessa di esistere e si passa all'attuazione di un modello basato unicamente sulla democrazia diretta, i partiti politici vengono automaticamente privati della ragione della loro permanenza. Quale ragione di esistere avrebbe un sistema basato sui partiti, magari partecipativi, quando i cittadini possono esprimere sempre e direttamente la loro opinione sulle singole questioni presenti nell'agenda politica? Si tratterebbe di un'inutile doppione: i cittadini dovrebbero votare sia per far conoscere la loro volontà, tramite il tele-voto, al partito a cui appartengono, sia per prendere direttamente le decisioni tramite i tele-referendum a livello nazionale o anche locale: perchè? Sarebbe assolutamente inutile, tanto più che in democrazia diretta non è necessaria la rappresentanza. L'eliminazione dei partiti politici è automatica, scontata e ovvia nel momento in cui si decide di affrontare il passaggio verso la democrazia diretta. Inoltre appare evidente come sia più lineare e quindi efficace un sistema in cui è direttamente il "demos" nel suo insieme a decidere (vedi Tab. 7.5), piuttosto che le singole parti di esso legate ai vari partiti partecipativi, i quali, in seguito, li dovrebbero rappresentare in sede parlamentare e governativa.

 

Tab. 7.5 Processo decisionale nella Democrazia Diretta.

 

ATTUAZIONE

tramite personale governativo e burocratico

é

DECISIONI

é

OPINIONE DELLA MAGGIORANZA DEI CITTADINI

sulle questioni presenti nell'agenda politica

é

SISTEMA DI TELE-VOTO

tramite l'impiego delle nuove tecnologie di video-comunicazione interattiva

utilizzato a livello nazionale e locale

é

CITTADINI

 

La creazione dei partiti partecipativi può essere un passaggio estremamente utile ed importante per consentire, da un lato, una rappresentanza più vera e legittima; dall'altro per offrire ai cittadini un modo per abituarsi, adeguarsi gradatamente e comprendere fino in fondo tutto ciò che comporta la possibilità di vivere in modo partecipativo e attivo la vita politica. Il fine ultimo rimane comunque il raggiungimento di un modello completo interamente fondato sulla democrazia diretta (vedi Tab. 7.6). Se sia necessaria una fase di transizione o meno, questa è una questione che affronteremo più in dettaglio nel capitolo 11, anche se la risposta dipende soprattutto dalle circostanze storico-socio-economico-politiche che saranno presenti in quel momento.

 

Tab. 7.6 Esistenza dei partiti politici. I partiti politici

A - Possibile fase di transizione: sistema misto di democrazia rappresentativa e diretta

Presenza dei partiti partecipativi: utile trasformare l'attuale struttura interna dei partiti in senso maggiormente partecipativo grazie all'utilizzo delle nuove tecnologie di comunicazione interattive e al sistema di tele-voto.

B - Nel modello completo interamente basato sulla democrazia diretta:

Eliminazione dei partiti perchè non più necessari come struttura di aggregazione e di rappresentanza degli interessi e delle domande.

 

7.2 - I sindacati

7.2.1 - Ruolo e problemi

I sindacati hanno dimostrato, nel corso dei secoli, di essere lo strumento più efficace per la tutela dei lavoratori. Grazie ad essi, nel XIX secolo, l'associazionismo operaio è potuto divenire lo strumento determinante per attenuare e colmare il divario tra la posizione di debolezza del singolo lavoratore rispetto alla posizione di forza del datore di lavoro. Sempre grazie ad essi si è riusciti a ridurre lo sfruttamento del lavoro operaio nella prima fase dell'industrializzazione.

La prima battaglia che i sindacati hanno dovuto sostenere è stata proprio quella per la loro esistenza, passando da una prima fase di repressione, a una seconda di tolleranza e infine al riconoscimento del diritto di esistere. Oggi i sindacati sono pienamente riconosciuti e garantiti da molte Costituzioni.

Da un punto di vista giuridico, ai sindacati oggi è garantita la "libertà di organizzazione sindacale" (art 39 Cost. It. 1° comma), che secondo molti giuristi deve essere interpretata sia nel senso della possibilità di costituire uno o più sindacati, sia come libertà per ogni lavoratore di aderire o meno a un sindacato, impedendo quindi ogni forma di adesione obbligatoria ad essi. L'unico obbligo - almeno per ciò che prevede la Costituzione italiana - è la loro registrazione, alla condizione che "gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica" (art 39 Cost. It. 3° comma).

Nella prassi italiana, tuttavia, i sindacati hanno mostrato una netta opposizione all'adozione delle necessarie disposizioni legislative, rendendo impossibile la regolamentazione della registrazione, con conseguenze sia sulla loro posizione giuridica, che sulla contrattazione collettiva di lavoro. La mancanza della legge sindacale rende impossibile, in Italia, la stipulazione di contratti collettivi di lavoro di diritto pubblico, lasciando come unica alternativa i contratti collettivi di lavoro di diritto privato; in questo modo si giunge spesso ad una contrattazione più articolata e a più contratti, individuali o collettivi, per la stessa categoria, anche se esiste la possibilità, spesso attuata nella pratica, di estendere l'applicazione dei contratti collettivi di diritto privato a tutti gli appartenenti alle categorie interessate tramite atti di grado legislativo. In ogni caso, tutto ciò ha provocato una progressiva perdita di rappresentatività e di autorità dei sindacati maggiori, specialmente in alcuni settori, causando la proliferazione di molti sindacati di categoria e di comitati di base. Nonostante ciò, i tassi di sindacalizzazione basati sulla popolazione attiva registrati in molti paesi europei, hanno evidenziato un incremento tra gli anni '60 e gli anni '80 (vedi Tab. 7.7 e Graf. 7.1), con una presenza maggiore nell'ambito del settore pubblico rispetto a quello privato (vedi Tab. 7.8 e Graf. 7.2).

 

Tab. 7.7 Tassi di sindacalizzazione negli anni '60 e '80 sulla popolazione attiva in Europa.

'60

'80

Francia

15

19

Gran Bretagna

42

48

Italia

18

39

RFT

30

41

 

Tab. 7.8 Suddivisione tra settore pubblico e privato dei tassi di sindacalizzazione sulla popolazione attiva in Europa negli anni '80.

settore pubblico

settore privato

Francia

35

16

Gran Bretagna

75

40

Italia

42

35

RFT

58

29

 

La struttura sindacale varia in modo notevole da paese a paese. In Italia sono presenti organizzazioni sindacali per tutte le categorie di lavoratori più importanti, oltre ad altre organizzazioni a livello territoriale come le Camere del Lavoro e le Unioni sindacali.

In Gran Bretagna circa il 90% dei sindacati fa capo alle Trades Union Council (TUC), un'organizzazione di vertice del movimento laburista dominato da alcuni grandi sindacati operai. Il TUC è avvantaggiato dalla mancanza di un'organizzazione rivale e dai rapporti privilegiati col partito laburista, anche se la sua autonomia e la struttura decentrata dei sindacati membri lo privano di autorità e di risorse, indebolendolo nel momento in cui deve affrontare dei negoziati sia con i datori di lavoro che col governo, poichè gli è impossibile assicurare il rispetto, da parte dei suoi membri, di eventuali accordi generali.

Nella RFT, negli anni '80, esistevano tre organizzazioni di vertice, la più importante delle quali è la DGB che raduna 16 sindacati di categoria che rappresentano e organizzano l'80% dei sindacalizzati. La DGB si autodefinisce "non politica", anche se ha stretti contatti con l'SPD e un forte grado di controllo sui suoi aderenti, che lo pongono in posizione privilegiata quando si tratta di dover negoziare accordi più vantaggiosi.

In Francia e in Italia esistono quattro organizzazioni di vertice (vedi Tab. 7.9), ideologicamente divise. Ogni centrale ha i suoi sindacati di categoria, e questo ha indebolito ulteriormente la posizione dei lavoratori. In Italia, la consapevolezza di questo inconveniente ha indotto ad attuare una politica di unità sindacale fin dagli anni '70, anche se con alcune fasi alterne di tensione e disunione dovuti a momenti particolarmente difficili di recessione economica.

 

Tab. 7.9 Le organizzazioni sindacali in Francia e Italia negli anni '80, ideologia e percentuali di iscritti.

Organizzazioni sindacali

Ideologia

% di iscritti

Francia:

CGT

comunista

40

CFTD

socialista

30

FO

socialista-destra

24

CDTC

cattolica

6

Italia:

CGIL

comunista-socialista

45

CISL

cattolica

35

UIL

socialdemocratica

12

CISNAL

fascista

5

 

La forza dell'azione sindacale risiede soprattutto in due fattori: il primo è la specializzazione tecnica di parte del personale sindacale che permette il coinvolgimento dei sindacati stessi in una molteplicità di commissioni e di consultazioni di tipo tecnico e settoriale, come possono essere alcune riunioni di vertice tra personale governativo, dirigenti sindacali e rappresentanti di associazioni di industriali, in grado, attraverso la cosiddetta "politica tripartitica", di definire i termini del patto sociale; il secondo fattore in cui risiede la forza dei sindacati è lo sciopero o anche la semplice minaccia di uno sciopero. Lo sciopero è uno strumento assai potente nelle mani del sindacato, con un potenziale di efficacia maggiore rispetto a tutti gli altri interessi e gruppi organizzati. Esso comunque rimane uno strumento difensivo, e non offensivo, proprio per questo va utilizzato con estrema cautela tenendo sempre presenti le circostanze particolari in cui si intende impiegarlo, poichè da esse dipende gran parte del suo successo. Il diritto di sciopero è garantito dalla Costituzione italiana e da quella francese; mentre in Gran Bretagna è riconosciuta la libertà di sciopero ma non il diritto di sciopero; in RFT esistono precisi limitazioni legislative.

Il sindacato è nato per cercare di controbilanciare lo strapotere del capitale sui lavoratori. Esso ha portato alla luce molti degli elementi di debolezza del lavoro in quanto interesse organizzato: il numero abbastanza scarso di lavoratori organizzati; divisioni interne e divisioni politiche molto più accentuate che per il capitale; risorse finanziarie limitate e sicuramente inferiori a quelle del capitale; clima ideologico e politico favorevole al capitale; concorrenza di nuovi movimenti sociali.

Al di là di tutte le eventuali differenze di struttura e di forma dei sindacati a seconda dei diversi paesi in cui si trovano, essi hanno mostrato una tendenza verso tutta una serie di problemi comuni a quelli che abbiamo visto per i partiti politici. Anche essi hanno evidenziato una progressiva perdita di contatto con la base, cioè con i lavoratori; una struttura interna sempre più verticistica e gerarchica che sembra rinnovare la validità della "legge di ferro dell'oligarchia" di Michels e ridurre a livelli assai bassi la democrazia interna ad essi; e il sempre presente problema del finanziamento. Sempre più spesso un numero crescente di lavoratori, iscritti o meno al sindacato, si lamentano per l'insensibilità che questo mostra nei confronti di molte questioni che stanno loro a cuore. Il distacco tra i lavoratori e il sindacato sembra aumentare ogni giorno che passa.

Inoltre, troppo spesso la prassi ha mostrato come in molte imprese di piccole o medie dimensioni sia assai difficile, se non addirittura impossibile, introdurre personale sindacale, lo stretto contatto che gli industriali hanno in questi casi con i loro dipendenti induce questi a evitare di iscriversi a qualsiasi sindacato, salvo rivolgersi ad essi nel momento in cui ne hanno bisogno per la difesa di qualche loro diritto. Vi è poi una tendenza generale, attuata anche dalle grandi imprese, di evitare l'assunzione di personale già iscritto ai sindacati. In questo modo solo una parte della popolazione lavoratrice si iscrive ai sindacati, riducendo così il loro potere in sede di negoziati perchè non legittimati da una estesa rappresentanza della popolazione lavoratrice. Inoltre, la mancata iscrizione di molti lavoratori riduce anche le entrate finanziarie dei sindacati e, come logica conseguenza, anche il loro potere d'azione e organizzativo. La scarsa presenza sui luoghi di lavoro, o meglio sarebbe dire la diffusione solo parziale, riduce sia la possibilità di conoscere a fondo molte realtà lavorative, sia di avere un potere effettivo all'interno di queste aziende.

Se da un lato la negoziazione a livello nazionale condotta dalle varie categorie di lavoro ha il vantaggio di ottenere dei contratti e dei diritti validi per tutti i lavoratori di quella categoria, dall'altro spesso non è in grado di risolvere molti problemi quotidiani, se questi non hanno rilevanza nazionale o se addirittura non sono giunti alla conoscenza dei rappresentanti sindacali. Molti problemi di carattere locale o legati a una situazione singola vengono tralasciati, poichè sarebbe impossibile per un sindacato nazionale dover affrontare tutte quelle minuscole battaglie per ottenere un diritto che serve a pochi, l'unico modo per risolverli sembra quindi essere lo sciopero spontaneo e la protesta dei lavoratori di quell'azienda in cui si è manifestato il problema, nella speranza che i disagi provocati inducano l'industriale in questione a migliorare la situazione particolare.

Per di più, l'esigenza di portare a conclusione un accordo induce spesso il sindacato ad accettare dei compromessi con la controparte, deludendo così le aspettative di molti lavoratori che avevano considerato i punti posti sulla piattaforma come irrinunciabili. Il compromesso è spesso l'unica soluzione possibile per evitare scioperi troppo duri e prolungati nel tempo che danneggerebbero entrambi le parti, inasprendo i rapporti. Tuttavia la mancata piena accettazione dei compromessi da parte dei lavoratori, lascia in loro la sensazione di essere stati traditi nelle loro aspettative, di non essere stati rappresentati fino in fondo, aumentando la sensazione di distacco dai vertici dei sindacati.

In alcuni casi, come ad esempio in Italia, si è verificata una permanenza straordinariamente lunga nelle principali posizioni dirigenziali e di vertice dei sindacati. Certamente è difficile dire che questo sia un problema, ma sicuramente potrebbe, se diffuso come modus operandi, comportare dei notevoli rischi, poichè, si sa, lasciare per lunghi periodi gli uomini in posizioni di potere può indurli ad abusarne. Fenomeni di corruzione e di legami occulti con la controparte per ora non sono venuti alla luce, ma la possibilità che ciò possa accadere è presente e ed è direttamente proporzionale alla durata degli incarichi sindacali, soprattutto di alto livello. Meglio sarebbe se vi fosse un ricambio periodico delle persone che rappresentano i sindacati in pubblico, anche se ciò potrebbe comportare altri inconvenienti; è noto, infatti, che in sede negoziale la controparte preferisca trattare sempre con lo stesso soggetto, perchè lo conosce meglio. Proprio questa maggiore conoscenza personale dell'avversario può però favorire gli industriali, poichè conoscendo le possibili reazioni dei leaders e dei dirigenti sindacali alle loro posizioni possono agire in modo da anticipare le loro mosse, ottenendo così ciò che vogliono.

In più di un'occasione il mondo intellettuale della sinistra ha accusato le organizzazioni sindacali di essere uno strumento nelle mani del capitale per incanalare, ridurre e controllare le possibili tensioni e il conflitto sociale. Un modo per evitare che la classe lavoratrice riuscisse ad ottenere tutto quanto chiedeva e per diluire nel tempo le loro richieste.

Non ci si può comunque dimenticare che i sindacati, insieme ai partiti della sinistra, sono riusciti, nel corso degli ultimi decenni, a far fare numerosi passi avanti nella conquista di molti diritti e tutele per i lavoratori. Purtroppo però bisogna anche riconoscere che spesso, nei fatti, molti di questi diritti conquistati sulla carta non vengono applicati. E' il mondo del lavoro sommerso, del lavoro in nero, dei doppi e tripli lavori, dello sfruttamento sul lavoro, delle mancate misure di sicurezza necessarie, e di altro ancora. In questo il sindacato ha delle responsabilità, perchè pur denunciando le situazioni più estreme non conduce delle battaglie realmente forti perchè le questioni vengano poste all'attenzione di tutta l'opinione pubblica, conquistando le prime posizioni nell'agenda politica. Certamente una grossa parte delle responsabilità, probabilmente le maggiori, ricadono sullo Stato e sulle autorità preposte a svolgere i compiti di controllo, ma anche il sindacato deve fare la sua parte.

La tabella 7.10 riassume in modo schematico i principali problemi dei sindacati emersi durante l'analisi.

 

Tab. 7.10 I principali problemi dei sindacati.

a- Organizzazione interna sempre più verticistica, gerarchica e burocratizzata.

b- Perdita di contatto con la base e delusione delle aspettative dei lavoratori.

c- Bassi tassi di sindacalizzazione. Non completa diffusione nelle aziende: difficoltà ad entrare in quelle più piccole.

d- Mancanza di conoscenza di molte situazioni problematiche particolari e quindi impossibilità di agire.

e- Esigenza di tralasciare molte questioni particolari per concentrarsi su battaglie di carattere generale.

f- Compromessi in sede negoziale per i contratti nazionali di categoria: delusione delle aspettative dei lavoratori.

g- Eccessiva permanenza nelle posizioni di vertice di alcuni uomini del sindacato.

h- Fenomeni di corruzione e di legami con la controparte.

i- Accusa di essere uno strumento nelle mani del capitale per incanalare, ridurre e controllare il conflitto.

l- Problemi di finanziamento e conseguenti difficoltà organizzative.

m- Insufficiente forza e risonanza nelle denunce sul mancato rispetto dei diritti dei lavoratori conquistati formalmente, ma spesso non applicati.

 

7.2.2 - I nuovi sindacati

L'esistenza di un'organizzazione come il sindacato è indubbiamente utile in qualsiasi tipo di regime, ma questo non vuole assolutamente dire che non sarebbero auspicabili delle modifiche nella sua struttura interna e anche in parte della legislazione che lo riguarda. I sindacati servono sia nelle democrazie rappresentative che in quelle dirette, ma in entrambe devono modificare e migliorare la loro struttura interna per cercare di risolvere quello che appare essere uno dei problemi principali che li attanaglia, quello della progressiva perdita del contatto con la base, da cui hanno origine molti altri problemi. La soluzione richiede di ripensare, rivedere e riformare in modo drastico i sindacati, rinnovandoli completamente, ottenendo così: "i nuovi sindacati".

Alcuni degli aspetti da rivedere riguardano la legislazione ordinaria e costituzionale sul sindacato. Andrebbe modificata l'interpretazione della norma costituzionale "L'organizzazione sindacale è libera." (Art. 39 Cost. It.) limitandola al fatto che è possibile l'istituzione di uno o più sindacati, legandola cioè a un discorso di pluralismo sindacale; ed escludendo invece la libertà per il lavoratore di decidere di aderire o meno a un sindacato. Operando in questo modo, in apparenza si elimina una libertà di scelta dei lavoratori, ma in realtà si cerca di tutelare il loro diritto ad iscriversi ad un sindacato, un diritto che troppo spesso è stato impedito dalle interferenze dei datori di lavoro, i quali hanno operato pressioni sui loro dipendenti perchè essi non usufruissero di questo loro diritto. Ai lavoratori rimarrebbe comunque la libertà di scegliere a quale delle organizzazioni sindacali aderire.

L'obbligo di iscrizione ad un sindacato renderebbe impossibile per qualsiasi datore di lavoro impedire ai suoi dipendenti di fare parte di qualche sindacato ed eviterebbe le possibili discriminazioni al momento delle assunzioni nei confronti di quei lavoratori che hanno fatto, nel passato o nel presente, vita sindacale attiva. Inoltre, l'obbligo di iscrizione per tutti i lavoratori a un sindacato avrebbe molti altri effetti positivi: primo fra tutti, consentirebbe al sindacato una maggiore legittimazione della rappresentanza dei lavoratori in sede di negoziazioni; ad ogni iscrizione è legato il versamento di una quota di iscrizione, migliorando e risolvendo almeno parzialmente, in questo modo, il problema delle entrate finanziarie nelle casse dei sindacati, e consentendo così una maggiore capacità organizzativa e d'azione.

La forza d'impatto dei sindacati, che rappresenterebbero l'intera popolazione attiva nel mondo del lavoro, sarebbe assolutamente enorme. Per questa ragione si rivelerebbe necessario rivedere, almeno in parte, la legislazione che li riguarda, regolamentando con precisione cosa essi possono fare o non fare, cosa possono chiedere e quando. Non è sicuramente questa la sede per scendere nel dettaglio della questione, per ora è sufficiente impostare le linee guida lasciando a un personale più esperto il compito di studiare nei minimi dettagli il problema.

Non è però sufficiente estendere l'iscrizione ai sindacati a tutti i lavoratori, è anche necessario concedere ad essi una maggiore possibilità di esprimere la loro opinione e porre all'attenzione molti dei problemi che emergono nella quotidianità della vita lavorativa. Lo scopo è quindi duplice: da un lato si vuole estendere al massimo la base dei sindacati; dall'altro si cerca di ridurre al minimo le distanze tra questa base e i vertici dei sindacati. Il primo scopo, abbiamo visto, lo si raggiunge con l'obbligo di iscrizione a uno dei sindacati esistenti; il secondo, invece, lo si ottiene introducendo all'interno del sindacato alcune forme di democrazia diretta. In questo ambito non si pensa certamente a un voto di tipo referendario sulle varie questioni, questo viene già espresso in sede politica; per ciò che riguarda il sindacato è sufficiente la creazione di una struttura interna, ben articolata su tutto il territorio nazionale, che consenta l'immediata ricettività nei confronti di tutti i problemi che si manifestano nel mondo del lavoro. La democrazia diretta interna al sindacato sarebbe maggiormente rivolta verso l'impostazione dell'agenda, anche se in alcuni casi particolari, su alcune questioni ritenute assai importanti, il sindacato potrebbe organizzare dei referendum consultivi a carattere interno per poter mostrare in sede negoziale alla controparte quale sia la posizione dei lavoratori, aumentando così la propria forza contrattuale.

Un mezzo utile a questo scopo potrebbe essere l'istituzione di un "ufficio del sindacato", reso obbligatorio per legge, all'interno di ogni azienda con più di 15 o 20 dipendenti. Questo ufficio del sindacato può anche essere costituito semplicemente dalla presenza di una persona che consente di mantenere un rapporto costante e diretto tra i lavoratori e i loro sindacati, dando loro la possibilità di esporre i problemi e di ricevere l'aiuto necessario da parte delle organizzazioni sindacali, sia che si tratti di consulenza legale; sia di porre nell'agenda un nuovo problema; sia, infine, di richiamare l'attenzione del sindacato e delle autorità dello Stato preposte su un mancato rispetto dei diritti dei lavoratori o della legislazione sul lavoro.

Grazie a questo semplice espediente si riuscirebbe a riavvicinare la base ai vertici del sindacato; ad avere continuamente un termometro del disagio dei lavoratori e del loro conflitto con i datori di lavoro; a sapere con precisione quali questioni vanno affrontate prima e dove avvengono delle irregolarità.

Per rendere più efficiente una simile struttura così ben articolata e con una diffusione capillare, risulterebbe di estrema utilità l'istallazione di una rete di terminali collegati a un computer centrale oppure una rete di computer che consenta di evidenziare in tempi reali quali sono le richieste più frequentemente rivolte al sindacato da parte dei lavoratori. La persona addetta all'ufficio del sindacato presente nei luoghi di lavoro potrebbe avere direttamente a disposizione un terminale nel quale inserire i dati o, al limite, se non è dotato di un terminale, mettersi in collegamento telefonico con un altro ufficio che ne disponga e fare inserire i dati riguardanti le principali esigenze dei lavoratori.

Dal canto loro, i sindacati dovrebbero prestare attenzione non solo alle grandi questioni che si manifestano a livello nazionale, ma anche ai micro-problemi che attanagliano i lavoratori nel corso della loro giornata lavorativa all'interno dell'azienda, grande o piccola, in cui prestano la loro opera retribuita. I vari uffici del sindacato distribuiti in tutte le aziende consentono al sindacato di ricevere immediatamente notizia di qualsiasi problema, è essenziale che esso ponga attenzione a tutto il materiale che lo raggiunge e sia pronto ad affrontare battaglie non solo di carattere nazionale e con l'utilizzo dello sciopero generale, ma anche le micro-lotte locali e particolari, quando si rendono necessarie.

Questa rete informatica faciliterebbe il sindacato nel compito di tenere sotto controllo la regolarità della conduzione delle aziende e il rispetto, all'interno di esse, dei diritti dei lavoratori, sebbene questo dovrebbe essere un compito che spetta alle autorità pubbliche. Nel caso in cui il sindacato prendesse coscienza che vi sono delle irregolarità diffuse in più aziende, oltre a denunciarle alle autorità pubbliche ad esse preposte, dovrebbe fare in modo di conferirgli una visibilità e una condanna morale di fronte all'opinione pubblica, al fine di scoraggiare chi è uso a simili comportamenti illeciti e di stimolare la denuncia da parte delle persone che sono a conoscenza di casi analoghi.

Per ciò che riguarda invece i vertici del sindacato, sarebbe bene evitare che i segretari durassero troppo a lungo nel loro incarico, e che l'assunzione di tale posizione fosse vincolata a un'elezione da parte degli iscritti a quel sindacato. Elezioni periodiche da tenersi ogni due o tre anni e senza la possibilità di ricandidarsi per l'elezione successiva. Il breve periodo di tempo è idoneo al fine di evitare una eccessiva personalizzazione e identificazione con il leader, piuttosto che un giudizio più razionale sul sindacato e il suo operato.

Inoltre, si suggerisce la rotazione periodica, con un intervallo di tempo di tre o quattro anni, per tutti gli altri incarichi dirigenziali interni alla struttura del sindacato. I tempi della periodicità in questo caso si allungano per fare in modo che si sfrutti fino al limite la specializzazione acquisita nella permanenza in una determinata posizione. La rotazione è utile per evitare sia il fossilizzarsi in un incarico, sia per ricreare nuovi stimoli, sia, soprattutto, per garantirsi dalla possibilità che si stringano legami di potere che potrebbero ledere agli interessi del sindacato e dei suoi iscritti.

In tutto ciò sta la struttura, gli scopi e i modi d'azione dei nuovi sindacati, come riassunti in modo schematico all'interno della tabella 7.11.

 

Tab. 7.11 I "nuovi sindacati": scopi e caratteristiche.

 

Scopi

1- Estendere al massimo la base dei sindacati.

2- Ridurre al minimo le distanze tra la base e i vertici dei sindacati.

3- Maggiore efficienza ed efficacia nella sua azione.

 

Caratteristiche

A- Obbligo per i lavoratori di iscriversi a uno dei sindacati esistenti.

B- Ulteriore regolamentazione, attraverso la legislazione ordinaria, delle attività che possono svolgere i sindacati e della loro frequenza.

C- Recupero della base attraverso l'introduzione di forme di democrazia diretta all'interno del sindacato.

D- Ogni azienda con più di 20 dipendenti deve avere un ufficio del sindacato al suo interno, in costante collegamento diretto con le sedi distaccate sul territorio nazionale dei vari sindacati.

E- Attenzione anche alle lotte per migliorare le condizioni di lavoro e risolvere i problemi particolari nelle piccole aziende.

F- Periodici controlli sulla regolarità della conduzione delle aziende e del rispetto dei diritti dei lavoratori, affiancando le strutture pubbliche preposte ad essi, e denuncia all'opinione pubblica dei casi di trasgressione delle leggi.

G- Elezione periodiche dei vertici del sindacato (ogni due o tre anni).

H- Rotazione periodica degli incarichi dirigenziali (ogni tre o quattro anni).

 

Grazie a tutte queste modifiche e innovazioni i nuovi sindacati dovrebbero riuscire a raggiungere i loro scopi, cioè la difesa e, in alcuni casi, la conquista dei diritti dei lavoratori e una condizione di forza per poter negoziare alla pari con il mondo imprenditoriale. Certamente un ruolo importante continuerà a svolgerlo la congiuntura economica che in alcuni periodi risulterà più favorevole alle richieste provenienti dai sindacati e dai loro iscritti, mentre in altri frangenti volgerà a favore delle esigenze del mondo del capitale. Rimane comunque valida la massima secondo cui il potere del lavoro è inversamente proporzionale a quello del capitale: più il capitale è forte e più il lavoro è debole, e viceversa. I nuovi sindacati hanno il vantaggio di facilitare la comunicazione tra gli iscritti al sindacato e i loro vertici, consentendo così una risposta più immediata alle questioni poste sia a livello nazionale che locale. Un grosso passo in avanti nella direzione di una maggiore efficienza.

 

7.3 - Le altre organizzazioni

I partiti politici e i sindacati non sono le uniche organizzazioni presenti nella vita politica e sociale di uno Stato, esistono anche altre associazioni il cui ruolo si è rivelato importante all'interno delle democrazie rappresentative e per le quali è necessario valutare se sia opportuno conservarle, magari modificandole in qualche loro aspetto, oppure eliminarle nel momento in cui venisse attuato il modello completo di democrazia diretta.

7.3.1 - Le associazioni degli interessi

All'interno della categoria delle associazioni degli interessi è possibile operare una suddivisione tra: a- associazioni imprenditoriali; b- le associazioni degli agricoltori; c- le associazioni di categoria e le organizzazioni professionali. Tutte queste associazioni sono utilizzate per rappresentare gli interessi delle organizzazioni professionali di cui fanno parte, si basano quindi sul principio della rappresentanza tipico delle democrazie rappresentative. Dopo averne descritto in breve le caratteristiche e le funzioni che svolgono all'interno di queste, si cercherà di considerare l'opportunità o meno di conservare una simile struttura nelle democrazie dirette, poiché basate su un principio che contrasta in modo profondo con quello alla base di queste. Ognuna, comunque, necessita di un discorso condotto in modo specifico.

a- Le associazioni imprenditoriali:

Le associazioni imprenditoriali rappresentano gli interessi del capitale e del mondo delle imprese. Al loro interno sono organizzate su diversi livelli e per settori. Le differenti dimensioni delle imprese, dalle grandi multinazionali alle piccole industrie a conduzione poco più che familiare, rende a volte impossibile una rappresentanza unitaria, proprio per questa ragione si sono formate diverse associazioni imprenditoriali, ciascuna delle quali a difesa degli interessi o della piccola e media impresa, o della grande impresa; del capitale industriale oppure di quello finanziario. Le grandi multinazionali costituiscono un caso a parte, la loro potenza economica e l'impatto che alcune loro decisioni possono comportare per i governi nazionali le mette spesso nella condizione di poter trattare direttamente con i governi nazionali delle democrazie rappresentative, anche se ciò potrebbe essere assai discutibile dal punto di vista democratico.

Le associazioni imprenditoriali di vertice - la CBI in Gran Bretagna, la BDI in RFT, la CNPF in Francia e la Confindustria in Italia - si avvalgono dell'adesione di una grossa fetta delle imprese industriali dei loro paesi, circa il 70%, anche se non tutte le società nazionali importanti e neppure tutti i settori vi aderiscono. In ogni caso queste associazioni sono molto forti e fanno spesso valere la loro posizione nei confronti dei governi. Tutto ciò nonostante nelle democrazie rappresentative il capitale già goda di numerosi canali preferenziali per far sentire la propria voce. Il mondo imprenditoriale ha un ruolo chiave sull'economia, molte delle decisioni sugli investimenti e sulle attività economiche sono nelle sue mani. Il personale manageriale del mondo economico ha spesso una formazione simile a quella dei dirigenti dell'amministrazione pubblica e dei politici. In questo modo la cultura dominante risulta essere quella più vicina al capitale. La vicinanza del mondo imprenditoriale ai partiti conservatori e liberali assicura a questi la costante disponibilità di mezzi economici per sostenere le loro campagne elettorali.

Insomma il capitale e il mondo imprenditoriale nelle democrazie rappresentative godono di canali di comunicazione diretta, più o meno occulti e più o meno leciti, con le sfere del potere politico, consentendogli in molti casi addirittura un controllo assoluto. Con questo non si vuole sostenere l'inutilità delle associazioni imprenditoriali, ma anzi ribadirne la legittimità di esistere e di difendere gli interessi dell'industria in modo chiaro, visibile e lecito. Casomai andrebbero eliminate, o almeno arginate, tutte quelle interferenze che il mondo delle imprese riesce a attuare sulla politica, scavalcando le normali procedure caratteristiche delle democrazie rappresentative.

All'interno di una democrazia diretta, invece, l'impostazione del discorso cambia notevolmente. Il ruolo delle associazioni imprenditoriali muta. Esse hanno il compito principale di difendere gli interessi della loro categoria, come nelle democrazie rappresentative, ma in questo caso la loro opera sarà, e dovrà essere, solo quella di partecipare al dibattito pubblico sulle varie questioni sottoposte alle decisioni dei cittadini, per evidenziare la posizione del mondo dell'industria a riguardo e le conseguenze che le diverse opzioni comporterebbero sull'economia del paese. Ovviamente sarebbero solo una delle varie voci che partecipano al dibattito e che costituiscono la fonte di informazione degli elettori.

Non più, quindi, dialogo privilegiato col governo, ma possibilità di rendere pubblica la loro posizione sui vari argomenti affinché siano poi i cittadini, attraverso gli strumenti offerti dalla democrazia diretta, a decidere.

b- Le associazioni degli agricoltori:

Le associazioni degli agricoltori hanno anch'esse la funzione di rappresentare, all'interno delle democrazie rappresentative, gli interessi della loro categoria professionale, gli agricoltori appunto. La loro non è una funzione istituzionale, ma grazie al potere che riescono a costituire attraverso queste organizzazioni che li riuniscono insieme sono divenuti tra i gruppi di interesse più potenti ed efficaci, riuscendo in più di un'occasione ad ottenere numerose sovvenzioni statali per aiutare lo sviluppo, o, in altri casi, consentire la sopravvivenza della loro categoria.

In molti dei paesi europei, negli anni '80, alcune di esse risultano essere dominanti all'interno delle rispettive nazioni (vedi Tab. 7.12), come la DBV in RFT; la NFU in Gran Bretagna; la FNSEA e il MODEF in Francia; e la Coldiretti (di area cattolica) in Italia. Queste associazioni riescono, grazie al ruolo così dominante all'interno della loro categoria, ad esercitare forti pressioni sui governi e sugli ambienti politici in generale.

 

Tab. 7.12 Le associazioni degli agricoltori in Francia, Gran Bretagna, Italia e RFT e le % di iscritti, negli anni '80.

Associazioni di agricoltori

% di iscritti

Francia:

FNSEA

50

MODEF

20

FFA

n.d.

Comitè de Gueret

n.d.

GEA

n.d.

MNAER

n.d.

Italia:

Coldiretti

n.d.

Confagricoltura

n.d.

Confcoltivatori

n.d.

Gran Bretagna:

NFU

80

CLA

n.d.

RFT:

DBV

90

DBLN

n.d.

 

Anche nel caso delle associazioni degli agricoltori, come in quello delle associazioni imprenditoriali, vi sono però delle divisioni interne dovute alle differenti esigenze dei grandi e dei piccoli agricoltori, che hanno talvolta indotto molti piccoli agricoltori a costituire delle nuove associazioni che difendessero maggiormente i loro interessi specifici. Tuttavia il ruolo più importante continuano a svolgerlo le associazioni al cui interno sono presenti i grandi agricoltori, che sono poi spesso le stesse che radunano il numero più grande di iscritti. In Italia abbiamo la Confagricoltura che raggruppa i grossi agricoltori, la Confcoltivatori composta soprattutto dai piccoli agricoltori, mentre la Coldiretti è abbastanza eterogenea.

Quasi tutte queste associazioni hanno dei legami più o meno stretti con i principali partiti dei loro paesi, come ad esempio in Italia la Confcoltivatori con i partiti di sinistra e la Coldiretti con quelli dell'area cattolica di centro, anche se nel 1990, durante il suo congresso nazionale, la Coldiretti ha votato a favore dell'autonomia e della fine del suo rapporto privilegiato con la DC, questo perchè ormai, per ciò che riguarda le politiche agricole, il Parlamento europeo di Bruxelles conta più di quello delle singole democrazie rappresentative nazionali. Il settore dell'agricoltura si è ormai ridotto numericamente, tanto da non costituire più una forze elettorale di interesse primario per i partiti; il loro potere politico deriva dai rapporti privilegiati con alcuni settori dello Stato, in particolar modo con i Ministeri dell'Agricoltura dei rispettivi paesi e con le diverse commissioni tecniche. Come accennavamo in precedenza, il ruolo dei governi nazionali, per ciò che riguarda l'agricoltura, si sta sempre più attenuando in favore dello sviluppo della CEE. Anch'essa, comunque, riconosce alle singole associazioni agricole delle varie nazioni, raggruppate all'interno della COPA (Comitato della Organizzazioni Professionali Agricole), un ruolo importante per rappresentare gli interessi di questa categoria professionale, anche se spesso le associazioni nazionali fanno pressioni sui loro governi e sui ministri dell'agricoltura perchè siano loro a difendere gli interessi di questa categoria all'interno delle strutture istituzionali europee. Non sempre le decisioni prese a livello europeo soddisfano i governi nazionali e tanto meno gli agricoltori e gli allevatori, basti pensare alle diffuse proteste, sia in Italia che in altri paesi europei, per le quote di latte stabilite dal Parlamento europeo e per le multe salate per i trasgressori. Sembra, insomma, che le cose stiano cambiando per le organizzazioni agricole, che in passato erano riuscite ad ottenere numerose risorse pubbliche a loro favore, - in alcuni casi distribuite in modo assai squilibrato e con numerose sprecherie - pesando forse eccessivamente sulle finanze degli stati. Ormai il Parlamento europeo ha raggiunto la consapevolezza sufficiente per decidere di gestire in modo più razionale il settore, anche se, come sempre, ogni cambiamento di questa portata comporta una fase di transizione assai dura e ricca di tensioni.

Fin qui abbiamo chiarito il ruolo delle associazioni degli agricoltori all'interno delle democrazie rappresentative. Quale futuro le attende all'interno di un eventuale attuazione di un modello di democrazia diretta? Lo stesso futuro che spetta a tutte le altre associazioni degli interessi, cioè la possibilità di continuare ad esistere, magari con una struttura interna maggiormente impostata sulla democrazia diretta (ma non necessariamente), e di difendere gli interessi della categoria anche se in modo assai diverso da quanto è accaduto fino ad oggi. Non più legami stretti con i partiti - anche perchè nel modello di democrazia diretta essi scompaiono - o rapporti privilegiati con i governi per influenzarne le decisioni ed ottenere sovvenzioni statali. L'unico rapporto che avranno con le istituzioni sarà quello in occasione di decisioni referendarie che li riguardano, nelle quali avranno la possibilità di esporre chiaramente il loro punto di vista e i loro interessi, spetterà poi ai cittadini decidere a riguardo. Rimane comunque la possibilità per le associazioni degli agricoltori, come pure per qualsiasi altro gruppo che difende gli interessi di qualche categoria, di usufruire a pieno di uno degli strumenti tipici della democrazia diretta: l'iniziativa popolare. Grazie a questo strumento e al loro potere organizzativo, qualsiasi tipo di associazione degli interessi è in grado di imporre qualsiasi questione nell'agenda politica di uno Stato, cercando di tutelare gli interessi di categoria. Il loro compito sarà poi quello di offrire ai cittadini tutti gli elementi informativi necessari per comprendere a fondo la loro posizione, fermo restando il fatto che essi saranno solo una delle parti che parteciperanno al dibattito politico e che vi saranno anche gruppi di interessi opposti che cercheranno di favorire scelte diverse. Compito dello Stato, attraverso apposite commissioni, sarà quello di controllare che l'informazione che forniscono tutte queste associazioni siano esatte e corrette, tali cioè da consentire una informazione di qualità per i cittadini che in seguito prenderanno una decisione a riguardo tramite i sistemi di tele-voto.

 

c- Le associazioni di categoria e le organizzazioni professionali:

A volte non è facile distinguere tra le associazioni di categoria e le organizzazioni professionali, anche se sussistono degli elementi che le differenziano. Le organizzazioni professionali sono solitamente organizzate in modo simile alle corporazioni medioevali e si occupano: della formazione e dei titoli necessari per entrare a far parte di una determinata professione; della deontologia professionale; e di prestazioni, come l'assistenza medica e le pensioni, che garantiscano la sicurezza di chi svolge tali professioni. Lo Stato democratico rappresentativo ha permesso a queste organizzazioni di regolamentare autonomamente, tramite uno statuto, l'esercizio della professione, pur nei limiti consentiti dalla legge dello Stato. In questo modo le organizzazioni professionali hanno creato delle nicchie in cui i loro membri godono di alcuni privilegi, tra cui quello di avere avuto dallo Stato una specie di delega del suo potere in queste aree. In cambio lo Stato, quando lo desidera, può ottenere determinate prestazioni dai membri di queste associazioni professionali.

Le associazioni di categoria, invece, si organizzano in forma sindacale e in alcuni casi aderiscono addirittura alle centrali sindacali; in altri casi, invece, scelgono una condotta autonoma. A questa categoria appartengono anche le associazioni dei lavoratori autonomi, che spesso, per sostenere gli interessi di categoria, hanno operato contestazioni molto dure e violente. L'influenza delle associazioni di categoria sulla politica nazionale nelle democrazie rappresentative dipende in modo determinante dalla forza e dal tipo di governo in carica.

Nelle democrazie dirette per le organizzazioni professionali e per la associazioni di categoria vale lo stesso discorso fatto in precedenza. Ben vengano tali organizzazioni, specialmente se cercano di mantenere in vita una certa deontologia professionale, ma appare chiaro che il loro ruolo sarà diverso per ciò che concerne la loro influenza sulle politiche statali. Come nei due casi precedentemente analizzati - le associazioni imprenditoriali e quelle agricole - anche per le organizzazioni professionali e per le associazioni di categoria si profila il compito di cercare di informare l'opinione pubblica sulle conseguenze che ciascuna delle varie scelte comporterebbe sulle varie categorie e sul paese in generale. Il fatto poi che alle organizzazioni professionali venga consentito di autoregolarsi, entro certi limiti, non può che assumere delle connotazioni positive in uno Stato governato attraverso gli strumenti della democrazia diretta, poichè corrisponderebbe alla filosofia che ne sta alla base, purché simili metodologie vengano utilizzate anche all'interno di queste strutture organizzative. Si dovrà comunque evitare che la possibilità di auto-regolamentarsi sfoci in una serie di privilegi di categoria ingiustificati che contrasterebbero apertamente con il principio di eguaglianza alla base di ogni democrazia.

7.3.2 - I movimenti

All'interno dell'etichetta "movimenti" possono venire inseriti numerosi tipi di organizzazioni, dai movimenti sociali, a quelli politici, di classe, culturali e molti altri ancora.

Nella categoria generale dei movimenti sociali o collettivi rientrano tutte quelle associazioni e gruppi che si organizzano in modo non ancora istituzionalizzato per ottenere il riconoscimento di diritti civili o politici, oppure per questioni di carattere economico e sociale. Spesso questi movimenti si pongono in aperto contrasto con tutto ciò che è l'esistente, sono portatori di nuovi valori, di nuove contro-culture, si oppongono alle ideologie e alle istituzioni dominanti e proprio per questo loro carattere così alternativo faticano ad ottenere un riconoscimento e una legittimità pubblica. Essi fanno parte - come direbbe il noto sociologo Alberoni - della "fase dello stato nascente" durante la quale nascono valori alternativi, spesso non negoziabili. Nel momento in cui le posizioni di questi movimenti si addolciscono e i valori diventano negoziabili essi possono venire istituzionalizzati, perdendo però la prerogativa stessa di essere "movimenti" e entrano a far parte a tutti gli effetti del sistema-Stato.

Finché non vengono istituzionalizzati essi rimangono movimenti sociali e si pongono in alternativa all'ordine sociale; proprio per questa loro caratteristica Touraine sostiene che essi nascano dalle classi subordinate come reazione all'ordine sociale imposto dalle classi dominanti. Sempre secondo Touraine, i movimenti sociali sono anche un'occasione perchè l'attore sociale riesca a dare una definizione di se stesso, è il cosiddetto principio di identità: la partecipazione ad un movimento, sociale o politico che sia, consente agli attori di caratterizzarsi prendendo posizione all'interno di un conflitto che coinvolge la società. Dal principio di identità ne consegue anche il principio di opposizione: "il conflitto fa sorgere l'avversario, - secondo le parole di Touraine - forma la coscienza degli attori in presenza." Per ultimo abbiamo il principio di totalità, che "non è altro che il sistema d'azione storica di cui gli avversari, situati nella doppia dialettica delle classi, si disputano il dominio: quanto più importanti sono i movimenti sociali, tanto più sarà valido il principio di totalità."

I movimenti sociali - sostiene ancora Touraine - sono parte di condotte collettive orientate:

"un movimento sociale non è l'espressione di una contraddizione; esso fa scoppiare il conflitto."

Cioè esattamente il contrario di quanto sostiene Smelser, secondo il quale invece:

"gli episodi di comportamento collettivo costituiscono spesso un primo stadio di mutamento sociale, si manifestano quando si presentano condizioni di tensione, ma prima che i mezzi sociali siano stati mobilitati per un attacco specifico e possibilmente efficace alle fonti di tensione. E' questa una ragione per definire il comportamento collettivo come non istituzionalizzato; esso si verifica quando l'azione sociale strutturata è sotto tensione e quando i mezzi istituzionalizzati per dominare la tensione sono inadeguati."

Melucci invece, nei suoi testi, pone l'attenzione su alcune condizioni necessarie per l'esistenza di un movimento sociale: prima di tutto la disponibilità da parte della popolazione a mobilitarsi; l'esistenza di un avversario identificabile; un problema che interessa realmente la società; l'organizzazione e i mezzi finanziari per sostenerla. Se tutti questi elementi sono presenti, allora il movimento può sperare di riuscire ad avere un seguito e che le proposte portate avanti giungano a buon fine. A volte, inoltre, - sostiene ancora Melucci - la presenza di un capo carismatico può facilitare la diffusione e la crescita del movimento; come pure il fatto che i partecipanti al movimento conoscano già le procedure di lotta; oppure abbiano l'opportunità di utilizzare reti di comunicazione già esistenti per la circolazione delle loro idee o di messaggi in codice. Anche se questi non sono elementi indispensabili come, invece, quelli citati in precedenza, la loro presenza rafforza il movimento e ne facilita il compito.

Melucci è anche l'autore di una delle classificazioni più chiare dei movimenti collettivi, egli distingue tra: movimenti rivendicativi, il cui obiettivo primario è quello di imporre mutamenti nelle norme, nei ruoli e nelle procedure di assegnazione delle risorse socio-economiche; movimenti politici, che cercano di incidere sulle modalità di accesso ai canali di partecipazione politica e di provocare mutamenti nei rapporti di forza esistenti; e movimenti di classe, il cui scopo è quello di capovolgere l'assetto sociale, trasformando i modi di produzione e i rapporti di classe. Un determinato tipo di movimento può trasformarsi, nel corso del tempo, in un altro tipo; ciò dipende da numerosi fattori, tra cui uno dei più importanti è il genere di risposta che lo Stato dà alle domande fatte dai movimenti, oltre che, naturalmente, dalla capacità degli stessi movimenti di allargare il loro seguito e aumentare così le pressioni per raggiungere i loro obiettivi.

Da quanto detto fino ad ora è emerso chiaramente che i movimenti sociali o collettivi non possono essere racchiusi all'interno del sistema istituzionale legato alla democrazia rappresentativa, ma anzi sono forme di partecipazione allo stato puro, spesso in contrasto col sistema dominante. Proprio per questa loro caratteristica essi sono già parte del modello di democrazia diretta, poichè ne racchiudono gli ideali più profondi. I movimenti sociali potrebbero addirittura rappresentare uno degli strumenti attraverso i quali diffondere il pensiero e le proposte legate alla democrazia diretta e giungere così alla sua attuazione pratica, ma questo è un problema che affronteremo più avanti (vedi Cap. 11).

Un caso a parte è costituito dai movimenti ecologisti, sviluppatisi enormemente negli ultimi 30 anni. L'ecologia ha rappresentato, nel corso degli anni '70, un punto comune per molti movimenti sociali. Esso richiamava un concetto nuovo di vita non-capitalistica, capace di valorizzare l'integrazione dell'uomo nel suo ambiente naturale e un benessere di tipo non-materiale. All'interno della categoria dei movimenti ecologisti ritroviamo due generi diversi: i gruppi ecologisti tradizionali, che si concentrano su una singola questione (single-issue) e, da un punto di vista organizzativo, mostrano tendenze centralizzatrici ed elitarie, limitando le possibilità di partecipazione degli iscritti e scoraggiando quindi ogni forma di mobilitazione popolare; i nuovi gruppi ecologisti, invece, hanno interessi più diffusi (multi-issue) e un'organizzazione più decentrata e informale, non sempre richiedono un'iscrizione formale e cercano di catturare l'attenzione della gente comune, in particolare dei giovani. I gruppi tradizionali si avvalgono del parere degli esperti del settore per intrattenere i contatti con le istituzioni; i nuovi gruppi ecologisti, invece, spesso non ottengono il riconoscimento pubblico dalle autorità statali, e devono quindi avvalersi di mezzi di pressione non-convenzionali utilizzando forme di attività e di comunicazione più dirette. Appare scontato, quindi, che i nuovi gruppi ecologisti meglio si adeguino all'interno di una eventuale struttura statale basata sulle istituzioni tipiche della democrazia diretta.

Il caso dei movimenti ecologisti tradizionali e nuovi è utile come esempio di due diverse tipologie di movimento: la prima appare maggiormente integrata in una struttura dello Stato ancora legata alle istituzioni democratiche-rappresentative, e quindi inadeguata nel momento del passaggio a una democrazia diretta; il secondo, invece, mostra già una predisposizione verso una simile nuova organizzazione dello Stato, anche se meglio sarebbe se anche loro si dedicassero a una sola questione per volta (single-issue) e interpellassero maggiormente gli esperti del settore, cosa che comunque pare incomincino a fare con maggiore frequenza negli ultimi anni.

Tirando la somme, quindi, in democrazia diretta i movimenti collettivi hanno tutta la legittimità di esistere e di rendersi utili, di condurre le loro battaglie sociali, politiche o culturali, di proporre visioni alternative e contro corrente, di partecipare al dibattito pubblico sulle questioni che li riguardano più da vicino al fine di permettere l'attuazione di una discussione realmente democratica, aperta e con una elevata qualità informativa che conduca a una scelta matura da parte dei cittadini che grazie all'esistenza dei movimenti collettivi avranno avuto l'opportunità di vagliare realmente tutte le alternative possibili prima di decidere attraverso il tele-voto. Certo è preferibile che i movimenti collettivi che nasceranno all'interno di una democrazia diretta ne assimilino gli ideali nella loro struttura di fondo, la quale dovrà consentire una piena partecipazione dei suoi membri al dibattito interno. Essi non avranno più bisogno di catturare l'attenzione delle istituzioni e di esercitare su di esse pressioni per ottenere la realizzazione di ciò che si prefiggono; nella democrazia diretta tutto ciò sarà possibile ottenerlo proprio grazie agli strumenti che questa offre, alle iniziative popolari e ai referendum, l'attenzione che essi dovranno preoccuparsi di catturare sarà quella dei cittadini, ai quali dovranno proporre i loro punti di vista in modo corretto e assai convincente perchè essi decidano di seguirli e eventualmente votarli. In ogni caso, una organizzazione non istituzionalizzata e spontanea come i movimenti collettivi sembra adeguarsi perfettamente sia alla filosofia che alle strutture della democrazia diretta, in attesa che l'attuazione di un simile modello possa confermare empiricamente quello che per ora rimane solamente a livello teorico, o poco più.

7.3.3 - I single-issue groups e i comitati organizzatori dei referendum.

Esistono attualmente dei grandi single-issue groups, alcuni dei quali di carattere internazionale, che si interessano di questioni come il mondo animale, i diritti civili e progetti particolari. Il fatto che puntino tutti i loro interessi su una singola questione permette loro di riscuotere un certo successo e di raggiungere gli obiettivi tematici che si prefiggono. In Italia, ad esempio, la LID (Lega Italiana per il Divorzio) è riuscita a far approvare e poi a difendere una legge sul divorzio; stessa sorte hanno avuto le proposte sostenute dalla Lega XIII maggio che miravano ad ottenere la possibilità di legalizzare l'aborto.

Nelle democrazie rappresentative, fino ad ora, i single-issue groups, più che altro, hanno assunto la forma dei comitati organizzatori dei referendum e delle iniziative popolari, anche se nella maggior parte dei casi le loro vicende si sono legate in modo assai stretto a quelle dei partiti che sostenevano la loro posizione. In effetti, in Italia, le campagne informative per i referendum sono state dominate dalle posizioni prese dai differenti partiti, che hanno prevalso sui comitati organizzatori e, anzi, ne hanno diretto le azioni. I referendum sono così diventati delle ulteriori occasioni per confermare o smentire le maggioranze di governo, assumendo una connotazione politica che non avrebbe ragione di esistere e perdendo quasi completamente il senso che avrebbero dovuto avere.

In un sistema integralmente strutturato sulla democrazia diretta, in cui è prevista l'abolizione dei partiti politici e della rappresentanza, simili problemi non sussisterebbero. I single-issue groups potrebbero svolgere la loro azione a pieno, partecipando e stimolando il dibattito politico sulle questioni che gli stanno più a cuore. La democrazia diretta trae linfa vitale da simili gruppi, poichè sono quelli che forse meglio si adeguano al tipo di battaglia politica da svolgere al suo interno: è proprio tramite la libera concorrenza tra questi gruppi che si sviluppa il dibattito politico, una migliore e più completa informazione dei cittadini che li conduce al momento della scelta finale tramite il referendum (tele-voto).

La vita di ciascuno di questi single-issue groups in democrazia diretta sarebbe necessariamente breve e limitata al tempo necessario a imporre all'attenzione dell'opinione pubblica le questioni per le quali sono nati, aprire un dibattito e possibilmente ottenere quanto ci si era proposti. Essi morirebbero con l'ottenimento del loro obiettivo, pronti a rinascere nel momento in cui venisse rimessa in discussione la scelta per cui essi avevano lottato. Nel caso invece che il referendum da loro voluto avesse esito negativo, gli si offre la scelta se continuare ad esistere e portare così ancora avanti la loro battaglia fino a una vittoria futura - e sarebbe la scelta più logica - oppure cessare, almeno temporaneamente, di esistere.

Nel modello di democrazia diretta i single-issue groups assumerebbero, molto probabilmente, le sembianza dei comitati organizzatori di referendum e iniziative popolari, poichè è tramite questi strumenti che ad essi è offerta istituzionalmente l'opportunità di raggiungere i loro obiettivi. I single-issue groups sono la forma organizzativa che meglio si adatta alla democrazia diretta, e in un sistema integralmente costituito su di essa prendono il posto lasciato libero dai partiti politici. E' attraverso di essi che i cittadini possono aggregarsi e portare avanti delle battaglie politiche. Naturalmente di questa forma organizzativa farebbero largo uso anche gli stessi gruppi di interesse i quali potrebbero usufruire di un mezzo legittimo per cercare di ottenere ciò che desiderano. In ogni caso saranno sempre i cittadini che compieranno una scelta alla fine del processo decisionale.

 

7.4 - Considerazioni finali

Tirando le fila di quanto fino ad ora detto, nel modello di democrazia diretta non ci sarà più spazio per i partiti politici, a meno che essi non trovino qualche nuova formula che fino a questo momento ci risulta sconosciuta. Ci appare comunque assai difficile, oltre che inutile, che essi possano prolungare la loro esistenza oltre i confini della democrazia rappresentativa; essi hanno dimostrato di essere legati a questa forma di democrazia fin dalla sua nascita, e nel momento in cui finisse l'esigenza della rappresentanza politica, terminerebbe anche il loro compito. D'altro canto i partiti non sono altro che uno strumento organizzativo per fare politica all'interno dei regimi basati sulla democrazia rappresentativa; nel momento in cui avviene un passaggio a un tipo diverso di democrazia, quella diretta, è più che naturale che ci si rivolga a forme organizzative differenti e che meglio si adeguano ai nuovi schemi decisionali.

I single-issue groups sembrerebbero essere proprio la forma organizzativa più adatta a portare avanti delle battaglie politiche all'interno della democrazia diretta. Di questa forma organizzativa faranno largo uso tutte le associazioni degli interessi e i movimenti politici e qualsiasi altro gruppo di interessi che voglia puntare in modo deciso verso l'ottenimento di un singolo obiettivo politico. Numerosi comitati organizzatori nasceranno e moriranno nell'arco di un tempo storico molto breve, immediatamente sostituiti da altri, dando luogo a una politica partecipativa assai dinamica.

E' bene ricordare, inoltre, che il modello completo di democrazia diretta qui sostenuto prevede l'utilizzazione delle moderne tecnologie di telecomunicazione interattiva; questo vuole dire che i comitati organizzatori e i single-issue groups potrebbero avere un'esistenza anche semplicemente virtuale, senza dover assumere quelle forme di vita politica che oggi ci sembrano "naturali". La loro battaglia politica e la stessa partecipazione attiva dei cittadini potrebbero avvenire direttamente attraverso il video di un computer o comunque di un sistema di telecomunicazione interattiva. Potremmo ancora assistere ai dibattiti televisivi oggi in uso, ma probabilmente - è auspicabile - il ruolo informativo maggiore sarebbe svolto proprio dai sistemi di comunicazione interattiva, attraverso i quali il cittadino potrebbe usufruire delle informazioni che ritiene più utili, in tempi brevissimi.

Un ruolo ancora molto importante continuerebbero a svolgerlo i sindacati, anche se dovrebbero porre la dovuta attenzione all'attuazione dei cambiamenti che la nuova situazione impone (vedi Tab. 7.11).

Nell'ambito della costruzione di un modello completo di democrazia diretta si è ritenuto opportuno analizzare in prima istanza le forme organizzative che saranno utili per condurre le battaglie politiche e la conquista-difesa di molti diritti civili. E' grazie a queste organizzazioni, e a quelle che ne rimangono escluse, che la democrazia diretta può incominciare e poi continuare a vivere; è grazie ad esse che la vita politica può cambiare aspetto e divenire più dinamica e aperta. Certo queste organizzazioni sono solo uno strumento applicativo; gran parte del merito spetta alle istituzioni e alla nuova struttura dello Stato, aspetto che ci apprestiamo ad analizzare nel prossimo capitolo.

 

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